Tra piedoni e canapioni, l'ingegner Gadda è lo Jacovitti della nostra prosa

Matteo Marchesini

Quei romanzi portati avanti come un gomitolo che s’aggroviglia e si sfilaccia

Tutta una generazione di scrittori nati negli anni 90 dell’800 ha raggiunto la maturità quando ormai i giochi di avanguardie e modernisti sembravano fatti. Alcuni tra i più consapevoli sentirono che non si poteva tornare indietro ma neppure andare avanti, e accettarono un destino di alto manierismo. Sia Gadda che Nabokov, ad esempio, tornano a infierire su un romanzo ottocentesco già umiliato: lo strizzano, lo spernacchiano, lo bullizzano con le tecniche della Crisi, eppure non escono dal suo perimetro. Mentre il russo lo ricompone in un prisma cristallino, l’italiano lo manda avanti come un gomitolo che s’aggroviglia e si sfilaccia. Se tanti racconti dell’Ingegnere terminano prima di cominciare, minuziose premesse a una storia non scritta, i suoi romanzi si arrestano come gialli mutili davanti al colpevole, alla “causa efficiente”.

 

Secondo Roscioni gli ellittici finali gaddiani somigliano al gesto brusco con cui, dopo avere meditato sulle possibili conseguenze di troppe mosse, uno scacchista sposta la prima pedina che gli capita cedendo alla stanchezza. Il discorso vale sia per la “Cognizione del dolore”, incubata a fine anni 30 sulle pagine di “Letteratura”, sia per il “Pasticciaccio brutto de via Merulana”, che cominciò ad apparire nel ’46 sulla stessa rivista, e che lungo gli anni 50 prese la sua forma definitiva attraverso una complicata trattativa con Garzanti. Dopo la pubblicazione in volume del ’57 sarebbe dovuto uscire un seguito, che però non vide mai la luce. Gadda lavorò invece a una pignola correzione della lingua, venata di romanesco e di dialetti meridionali. Sulla gestazione del “Pasticciaccio” ci offre notizie preziose la nuova edizione Adelphi curata da Giorgio Pinotti, e corredata da qualche foto dell’agro romano che Gadda scattò nei sopralluoghi per l’ultima parte del capolavoro: a testimonianza del fatto che questo distruttore preterintenzionale del romanzo conservò sempre una naturalistica superstizione del vero. Oltre che del processo di revisione, Pinotti dà conto del taglio di certi capitoli che rendevano eccessivamente espliciti i misteri del plot, e anche di un finale lirico, alla maniera della “Cognizione”, sostituito poi dal celebre “no” della ragazza che folgora il commissario Ingravallo come un “sì” cambiato freudianamente di segno. La vicenda di furto e omicidio, iniziata in un palazzo di via Merulana e interrotta nel pantano tra i Castelli e l’Appia, è troppo nota perché ci sia bisogno di riassumerla. E del resto è altrettanto noto che il sugo non sta nella trama, ma nell’occasione che offre a Gadda di sfogare i suoi impulsi barocchi, di trasformare la babele linguistica dell’urbe nella proliferazione dei suoi umori e dei suoi tic stilistici deformanti (i titillamenti etimologici, lo smontaggio della realtà in dettagli e teoremi abnormi, l’accostamento comico di scenari domestici e luoghi epici…). Soprattutto, la tranche de vie e la Roma fascista del ’27 permettono a Gadda di comporre un’enciclopedia delle proprie ossessioni. Questa vucciria satura di questurini e sciure, di cavalieri del generone, pizzicagnoli e portinaie, di serve e di mezzane, di meccanici e di sottoproletari criminali, rappresenta benissimo il suo affascinato orrore per la folla. E’ la folla che nell’“Adalgisa” marcia verso il concerto, che al sipario della “Cognizione” entra nella casa insanguinata, e che qui brulica vociante e variopinta nella prima metà del libro.

 

Il mondo, in Gadda, è un condominio dove non si può mai star soli, dove si è perennemente assediati dal frastuono, costretti a respirare le più condensate puzze, minacciati dal furto della roba e della vita istessa. Chi ostenta di proteggerti è appunto colui che coi suoi imbrogli mafiosi e le sue truffe ti minaccia e deruba: il Nistitúo e i becchini nel Maradagàl, i finti controllori dei termosifoni e i gerarchi a Roma.

 

D’altra parte, l’incubo dell’effrazione viene alimentato dall’idea fissa della proprietà, la cui perdita è una cosa sola con la morte, che a sua volta coincide con la vergogna di essere oscenamente esposti alla vista di chiunque. Se nella “Cognizione” la morte è notturna, nel “Pasticciaccio” arriva di giorno. In entrambi i casi, un delitto consumato nell’intimità borghese rimanda alla desolazione di poveri casotti rurali, plebi stordite e pennuti razzolanti, sui quali cala l’ombra silenziosa del male: tra le molte pagine da antologia, indimenticabile è nel libro del ’57 quella dove Camilla immagina il diavolo incarnato in una gallina. Le vittime dei due romanzi sono rispettivamente una madre e una madre mancata; però la femminilità è comune, e si esprime nel tentativo d’incorporare o viceversa di dilapidare tutto ciò che le circonda, ossia nell’abolizione dei confini.

 

Ma il tema gaddiano della Femmina, coi suoi sottotemi biologici, erotici e famigliari, non di rado abbandona le arie drammatiche per le battute misogine: nel “Pasticciaccio”, lo spavento che la pistola del malandrino provoca nella signora Menegazzi (cognome dalla rima non equivoca) è indistinguibile dall’orgasmo che le suscita la speranza del batacchio. A volte Gadda insiste così tanto nel denigrare “chelle femmene” che sembra mosso dall’istinto di difendere un’identità in pericolo, un po’ come il Pestalozzi che di fronte alla Zamira, esclamando mentalmente “Maledetta zoccola!”, “si sentì rifatto brigadiere”. Il sentimento contraddittorio che l’Ingegnere prova per una realtà donnescamente tendente al ricatto e all’indistinto si rivela anche nei più tipici procedimenti formali. Si pensi a quel modo di entrare nei personaggi come un parassita che a poco a poco ne tradisce la prospettiva col suo sguardo; o si vedano gli elenchi caotici di cose, membra e voci, subito nascoste dietro perifrasi escogitate per rimuovere l’espressione diretta, cioè la nudità sconcia dell’esistere.

 

Uno stile del genere blocca la narrazione in descrizione, e trasforma la descrizione in una sorta di dilatata ekphrasis: nell’opera di questo supremo bozzettista molte scene si presentano come quadri tradotti in scrittura e quasi come parodie di Longhi, il cui manierismo ha però sempre un valore di conoscenza qui travolto dall’arbitrarietà del capriccio esornativo. Nel “Pasticciaccio”, tra le digressioni più commentate c’è un’ekphrasis in senso proprio. L’autore si sofferma sulla rozza pittura di un tabernacolo campestre, e attribuisce un’importanza spropositata agli alluci dei santi Pietro e Paolo, che paiono ficcarsi nell’occhio di chi guarda e che gli offrono lo spunto per una breve storia podologica della pittura italiana. Rileggendo il romanzo mi è tornato in mente che in Gadda i piedi sono ovunque, non solo in questa edicola sepolta sotto i graffiti dei filologi. Nella loro carnosa imponenza, si distendono già lungo le cronache di guerra, cercando il sollievo di un bacile. Dolci, sudati, gorgonzoleschi, meritano quasi sempre delle desinenze accrescitive: trattasi di piedoni, cui fanno pendant i non meno proverbiali canapioni con la goccia da formaggio in punta. Piedoni e canapioni appartengono poi spesso a ragazzi sparagioni, o magari ad asparagione femmine come la pora Adalgisa, omaccione truccato da clorotica cantante e autentica Albertine del Carlo Emilio. Questi giganteschi arti fumettistici, segati via dall’organismo intero, accompagnati da balloon semidialettali con grafie a pennacchio, e trascinati nella stessa scomposizione iperbolica che tocca, che so, agli strumenti musicali del “‘Concerto’ di centoventi professori”, evocano un paragone che non deve sembrare irriverente, e che anzi getta una luce adeguata sulla fantasia dello scrittore: Gadda, tanto Gadda, forse il più gaddiano e il più fedele alla sua vera misura, è lo Jacovitti della nostra prosa.

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