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La disinvoltura invidiabile di Alain Elkann nel guardare la morte, sua e di tutti

Elena Loewenthal

“Anita”, un romanzo tra Bibbia, autobiografia e tabù occidentali

Quella vecchia storia della mela dà da pensare: il testo biblico parla da solo, è eloquente come non mai, eppure l’interpretazione si arrovella da sempre, si avvita su ambigui significati, fa di tutto pur di non arrivare al dunque di una faccenda drammaticamente chiara. “Dell’albero della conoscenza di bene e male non mangiare, perché il giorno del tuo mangiarne da esso, morire morirai” (Genesi 2, 17).

 

Un’assenza, innanzitutto: Il divieto è imposto alla seconda persona singolare perché in quel momento Eva non esiste ancora. Imputare a lei e soltanto a lei la fatale trasgressione è un’incongruenza innanzitutto filologica: l’infamia della sua colpa vale tanto quanto la legittima presunzione della sua ignoranza. Vi è poi una contraddizione di fondo: tanto Eva quanto Adamo assaggiano quel frutto e non muoiono affatto. Dato per presupposta l’infallibilità di Dio, come stanno le cose? L’avrebbe detto a mo’ di minaccia, di deterrenza estrema, convinto che Adamo mai si sarebbe azzardato? Macché.

 

Il testo è invece molto chiaro. Quel “morire morirai”, dove il futuro è rafforzato da un infinito secco – in ebraico il tutto suona sordamente mot tamut – non è la minaccia di un decesso che infatti non avviene, bensì la sostanza di quella conoscenza che l’albero porta nel nome: la cognizione della morte. Niente (o quasi) a che fare con il sesso. Mangiando quel frutto si conquista la certezza che prima o poi si morirà. Non gli altri, non le piante, gli animali, il resto del mondo. Noi. Riguarda anche noi. Per questo, appena acquisita tale cognizione, Adamo ed Eva capiscono di essere nudi e se ne vergognano. Che poi vuol dire capire di essere fragili, vulnerabili, deperibili. Che si tornerà ad essere la polvere della terra che s’era prima e si sarà dopo.

 

“A questo punto è giusto che dica che qualcosa è cambiato per quanto riguarda la mia morte”, scrive Alain Elkann a un certo punto di “Anita” (Bompiani, pp. 89, € 15), il suo ultimo romanzo. Lui non ha paura di confrontarsi con questa certezza. Altro che millenni di salti mortali (sic!) intorno al versetto biblico, pur di non ammettere l’evidenza del suo significato. La morte è un tabù e sotto sotto tutti pensiamo che agli altri, sì, tocca, ma a noi forse no. Non è detto. Non si sa mai. Alain Elkann invece prende di petto la questione e la affronta praticamente in tutte le pagine di questo libro. Lui ci parla della propria, di morte. Non solo di quella degli altri. E lo fa con una con una disinvoltura invidiabile, con un senso dell’umorismo sottile, spiazzante. Prende in giro noi e se stesso, come quando scopre di avere dormito per mesi insieme alla sua fidanzata ma anche alle ceneri della madre di quest’ultima, riposte in uno scatolino in camera da letto, in bella vista.

 

Sarà un privilegio dell’età, quello di poter parlare della morte senza la paura di cozzare contro un tabù? Forse, ma non basta.

 

Milan è un agiato signore sessantenne, con una vita invidiabile e complicata al punto giusto. Ha avuto una fidanzata che non c’è più. No, non è morta. Si sono lasciati. Solo che Milan è affranto non tanto per quella rottura quanto per il fatto che lei non gli abbia riempito abbastanza la vita. Avrebbe voluto conoscerla tanto tempo prima: “Se si potesse tornare indietro e riscrivere la propria storia, avrei voluto incontrare Anita quando eravamo ragazzi”. Milan rimpiange l’impossibile, sarà anche per questo che sin dall’inizio del romanzo l’unica via di fuga che gli resta è riflettere sulla morte. E poi scopre di non avere più il posto che pensava nella tomba di famiglia, al cimitero parigino di Montparnasse, accanto al padre che tanto gli si era negato in vita e con cui sperava almeno di condividere il nulla eterno.

 

Per dimenticare Anita o anche soltanto scendere a patti con la solitudine, Milan fa propria quella cognizione della morte che costa ad Adamo ed Eva la cacciata dal Paradiso Terrestre ma prima ancora la constatazione della nudità, la vergogna di essere mortali, il nascondimento fra le fronde dell’Eden nella speranza che Dio non li trovi: Ayekha, “dove sei?”, dice lo spirito del Signore che aleggia sulla vegetazione, in cerca di quei due.

 

Alain Elkann, alias Milan, invece, non si nasconde affatto. Ficca il naso nelle urne con le ceneri di defunti vari, si domanda come è giusto che avvenga la spartizione delle spoglie – a chi la mano destra? A chi la sinistra?. Cerca di riconquistarsi un posto al cimitero, superando gli scogli della burocrazia, ma soprattutto dell’imbarazzo. Affronta la morte senza mezzi termini. Quella degli altri ma soprattutto la propria. Non è solo questione di coraggio. E’, prima ancora, questione di cognizione. Milan, alias Alain, non si tira indietro. Dice che questo succede quando si raggiunge una certa età, ma non è mica così. Non basta avere una certa età, per riconoscere la morte. E non basta neanche il coraggio. Non basta spazzare via il pudore per non sentirsi nudi. Ci vuole anche una buona dose di sincerità, per leggere le cose come stanno. Dentro e fuori dalla Bibbia.

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