L'ultimo libro dello scrittore spagnolo è "Berta Isla", edito in Italia da Einaudi (Foto LaPresse)

Il colpo di fulmine con Javier Marías

Marco Archetti

Non sono mai stato attratto dalla letteratura dello scrittore spagnolo ma un giorno in libreria ho scoperto “Berta Isla” e l’ho sbranato. Un romanzo vero 

Non mi sono mai sentito particolarmente attratto dalla letteratura di Javier Marías e a dire il vero non saprei spiegare perché. O meglio, lo saprei spiegare, ma solo in parte, il che dimostra come ogni solido non-rapporto che abbiamo con un libro o con un autore il più delle volte dipenda da questioni aleatorie. Va così anche al contrario, quando ci si innamora: ti invaghisci morbosamente di un’estranea, ossia di qualcuno che di fatto non conosci, giusto perché hai attaccato il cappello di un pregiudizio favorevole all’attaccapanni di una lacuna, perché unisci i puntini a modo tuo e riempi uno spazio bianco come ti pare, plasmi il vuoto, procedi a prescindere, e magari, nel giro di qualche tempo, va perfino a finire in matrimonio. Sono l’ultimo che può permettersi di far roteare la mazza d’arme di fronte a questi meccanismi più emotivi che razionali, i quali – me ne rendo conto – sbocciano a mezza strada tra la sospettosità e la preveggenza minore, e li condanno solo in certe cene noiose che provo a movimentare ergendomi a Cavaliere dei Lumi di lettura.

 

Per la maggior parte del tempo mi comporto come tutti, cioè male, e sebbene a volte decida di infrangere le mie convinzioni a priori (“non va bene, apriti o non conoscerai mai davvero la letteratura, ci sono mille sorprese che ti aspettano se solo ti sforzassi di essere migliore di te stesso, ti ricordi cosa diceva il grande François Picabia in Prenez garde à la peinture? Che la nostra testa è rotonda perché il pensiero possa cambiare direzione…”) sono anche sordidamente affezionato ai miei pregiudizi.

 

Qualche esempio: so già, e ovviamente senza leggerlo, che Hanif Kureishi non ha nulla da dirmi; sono sicuro che tra me e Jonathan Lethem non funzionerà mai; Elizabeth Strout mi piacerà sempre ma senza calore, perché le pagine che mi seducono davvero le ha scritte Alice Munro; ho piena consapevolezza del fatto che, per quanto ammicchi da splendide copertine, di Don Winslow e della sua prosa non mi interessa niente. E so anche che, leggendo queste righe, qualcuno che ami i sopracitati storcerà la bocca e concluderà che capisco poco o niente. Però so una cosa più importante, perché di recente ho sperimentato la gioia di avere torto: so che a vincere è sempre il romanzo, sempre l’opera. Non lo scrittore: la sua pagina.

 

Prima della settimana scorsa ciò che non mi attirava in Javier Marías erano innanzitutto i titoli. Il problema non è ovviamente William Shakespeare che gli presta i versi, ma come suonano fastidiosamente scaltri dopo il trasporto. Quando poi ho aperto le sue pagine – sempre in piedi, sempre in libreria, sempre al volo e a fisarmonica, sbirciando prima di passare ad altro – non mi sembrava che custodissero qualcosa che parlasse a me, proprio a me, essenzialmente a me. Però avevo anche letto molte interviste in cui Marías ribadiva di non fare distinzioni nette tra letteratura alta e bassa, essendo capace di godersi con medesimo profitto una raccolta di racconti di fantasmi, un grande romanzo o un testo filosofico, dunque – ho pensato – siamo lo stesso tipo di lettore, caro Javier. E poi me lo sono dimenticato.

 

Però per fortuna uno va ancora in libreria – fisicamente, voglio dire – e non vive solo di ricordi. Così sono incappato in “Berta Isla” e ho deciso di comprarlo d’impulso dopo aver letto a caso la frase “la verità non conta, dal momento che chi è tenuto a stabilirla è sempre qualcuno che non la conosce” e la reiterata citazione de “Il colonnello Chabert” di Balzac. Ho pensato che io e Marías avevamo davvero qualcosa in comune: una frase e un colonnello amato. E mi sono fidato non tanto dello scrittore, ma del lettore fratello che Marías è. Risultato? “Berta Isla” l’ho sbranato. E seppure a tratti ho trovato barocche alcune serpentine, manierate certe note eccedenti, evitabilissime alcune sparse prolissità, il romanzo ha vinto e stravinto, così come i suoi protagonisti e il modo dosato e travolgente in cui sono raccontati.

 

Non so se Javier Marías sarà mai il mio scrittore preferito, ma so che “Berta Isla” è un romanzo vero, un romanzo come se ne scrivevano una volta, un romanzo che non ha paura ma te la fa venire, che ti si insinua dentro al punto che l’ho letto raschiando il fondo del barile dei minuti tra una cosa e l’altra, notte e giorno senza riuscire a smettere, perché “Berta Isla” impone al tempo un altro tempo, modifica lo spazio e il senso delle cose che ti riguardano. Certo, soffre del difetto di essere troppo breve: cinquecento pagine. Perché io a quel punto – caro autore di un romanzo che stravince – sappi che ne avrei pretese mille.

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