René Magritte, Le double secret, 1927 – Collection Centre Pompidou, Paris Musée national d’art moderne

La fragilità dell'uomo contemporaneo c'entra con la crisi delle democrazie

Michele Vietti

Siamo “turisti” in balia del mondo postmoderno. Occorre recuperare le ragioni del nostro essere europei per non essere prede

Al direttore - Zigmunt Bauman ne “Il disagio della postmodernità” (Laterza, 2018) ricostruisce con grande lucidità gli scenari sociali attuali, identificandone il tratto tipico nel “disancoramento” da ogni ordine costituito.

 

Se la modernità all’insegna delle sue ideologie totalitarie inseguiva la purezza dei vari mondi ideali, sempre uguali a sé stessi, dichiarando guerra a tutto ciò che ne comprometteva il pieno compimento e la definitiva realizzazione, la postmodernità in cui viviamo è connotata da confusione e disordine allo stato puro che inducono una guerriglia permanente, foriera di insicurezza e paura del futuro e produttrice di disordine locale e mondiale.

 

In questo contesto non è più possibile una autonoma costruzione di identità che sola consentirebbe l’integrazione delle diversità. A livello individuale si percepisce l’acqua in cui si nuota per sopravvivere sempre più vischiosa e solo chi ha muscoli forti e libertà di movimento autosufficiente riesce a sfuggire alla minaccia che il contesto in cui si muove lo porti a fondo.

 

Come tutte le costruzioni basate sul consenso, l’Europa è vulnerabile a campagne basate sulle emozioni. Come sempre quando si smarriscono i motivi di uno stare assieme, le tentazioni non faticano a far breccia: basta un fuoco d’artificio scambiato per la stella polare per farci cambiare direzione

A livello sociale è favorita la politica di separazione ed esclusione che alimenta sempre più il divario tra ricchi e poveri, consumatori soddisfatti e consumatori mancati, in una contrapposizione permanente.

 

L’uomo disancorato vive la sua vita giorno per giorno, inseguendo una serie sempre nuova di bisogni improvvisi, senza assicurare mai impegni.

 

Non è un viandante che segue le tappe del suo pellegrinaggio ben sapendo da dove parte e dove è diretto. E’ piuttosto un “turista” (è ancora Bauman) che viaggia senza meta, viaggia per viaggiare, dove capita, senza bagagli ingombranti, portandosi dietro lo stretto indispensabile. Non ha una dimora ma passa da un accampamento all’altro. Non ha famigliari o amici ma incontra per caso nativi dei vari luoghi che non conosce e non vuole conoscere. Non assume responsabilità stabili e tantomeno definitive ma vive di episodi occasionali, senza passato né futuro. Il “turista” di questo mondo concepisce solo la sua differenza rispetto al vagabondo, che vive come lui ma senza mezzi né speranza di arrivare al prossimo accampamento e perciò lo demonizza, lo distanzia, lo separa.

 

Le fragili o inesistenti radici delle differenze e delle identità costruiscono il pluralismo della postmodernità come condizione di instabilità permanente, connotata da confusione e ansia per il futuro.

 

Sentire di non avere un proprio posto nel mondo genera angoscia, insicurezza ontologica, problemi di identità, impossibilità di essere sé stesso e di impostare un rapporto non conflittuale con l’altro da me, tanto più quando si presenta come un terzo che attenta alla mia soddisfazione consumistica.

 

In questo contesto socio-economico si colloca la riflessione sulle modalità di formazione del consenso “tra ragione e suggestione” promosso dalla Fondazione Iniziativa Europa in un recente convegno a Stresa.

 

Molte e interessanti le cose dette. Mi permetto di tentarne una sintesi inevitabilmente parziale. Nel mondo disancorato della postmodernità, come ho cercato di tratteggiarlo, la falsa informazione è di facile praticabilità (e fin qui nulla di nuovo) ma è anche ampiamente praticata.

 

Depistare il “turista” che ho descritto con indicazioni segnaletiche fuorvianti è un gioco da bambini. Chi non sa da dove viene e dove va, viaggia senza mappa e senza bussola, vive di quotidianità, è facile preda di suggestioni, di miraggi fatti balenare ad arte nel deserto della sua esistenza, di operazioni di depistaggio che lo convincono di voler andare in un posto senza sapere perché e per come. Lo storico americano Timothy Snyder in un bel libro (“La paura e la ragione”, Rizzoli, 2018) dà conto con ampie argomentazioni di alcuni di questi depistaggi.

 

L’Europa, ci dice, è una creazione formidabile della Storia che, pur con tutti i suoi limiti, rappresenta un contesto tra i più favorevoli in cui vivere oggi. E’ un’economia più sviluppata di quella degli Stati Uniti e otto volte superiore a quella russa. Le sue procedure democratiche, il suo Welfare, il suo modello alternativo alle disuguaglianze, la sua sensibilità per l’ambiente, il suo basso tasso di corruzione rispetto agli altri Stati, la sua politica estera fatta di un mix di promozione del mercato e della democrazia, la sua economia mai disgiunta dal diritto, sono elementi che singolarmente presi e soprattutto complessivamente considerati non hanno l’eguale nel mondo. Soprattutto il primato del principio di legalità, che fonda la cultura prima che l’ordinamento europeo, è il portato di un’evoluzione storico-concettuale che sintetizza le conquiste del mondo greco-romano, del cristianesimo, dell’illuminismo, del liberalismo, in una civiltà che muove intorno al concetto di dignità della persona umana e alla declinazione sempre più sofisticata e diffusa dei suoi diritti.

 

Questi connotati ci hanno garantito oltre settant’anni di pace, di progresso economico-sociale, di prosperità e benessere.

 

Eppure oggi ci accorgiamo che è mancata e manca la consapevolezza di tutto ciò, è mancata e manca un’educazione europea che faccia maturare questa consapevolezza, è mancata e manca la percezione che anche questa, come tutte le conquiste, va difesa e consolidata costantemente, pena il dissolversi delle sue ragioni, l’indebolimento delle sue fondamenta, la perdita del suo senso.

 

Come tutte le costruzioni basate sul consenso, l’Europa è vulnerabile a campagne basate sulle emozioni. Come sempre quando si smarriscono i motivi di uno stare assieme, le tentazioni non faticano a far breccia: basta un fuoco d’artificio scambiato per la stella polare per farci cambiare direzione.

 

Uno di questi fuochi d’artificio sparato da artificieri interessati è quello che Snyder chiama la “favola della nazione saggia”. Anziché riconoscere il fallimento della effimera parentesi degli stati nazionali europei tra la fase imperial-coloniale e l’inizio dell’integrazione europea, si idealizza l’isolamento delle nazioni nel periodo tra le due guerre, si nega o si elude il collegamento tra quell’isolamento e la deriva nazionalistica, il nazismo, il comunismo, la Seconda Guerra mondiale e si costruisce una retorica del guardare indietro anziché avanti, a quando eravamo noi stessi perché eravamo soli, a quando non c’era ancora l’Europa matrigna ma la mamma nazione. Questo falso storico nega l’evidenza secondo cui lo stato nazionale non dura senza strutture più grandi tanto che fino al 1918 la più parte dell’Europa era composta da imperi sovranazionali o continentali o d’oltremare. Le due guerre mondiali hanno cancellato gli imperi ma hanno anche decretato il fallimento degli stati nazione degli anni Trenta e Quaranta e delle loro follie ideologiche, mostrando la necessità del loro superamento nell’unità europea. La promessa del ritorno alla storia nazionale immaginaria, viceversa, indebolisce il senso di appartenenza europea, lo rende superfluo, opinabile, suscettibile di alternative, non più fondante.

 

Snyder teorizza che tutte le crisi dell’Ue degli ultimi anni hanno visto all’opera una cyberguerra che ha amplificato le ragioni di dissenso con l’Europa, contrapposto dialetticamente singoli stati e Ue, enfatizzato le ragioni di dissenso e di conflitto rispetto alle ragioni dello stare assieme.

  

Reclutamento di leader e partiti che operano per la disgregazione dell’Europa, penetrazione nel dibattito pubblico digitale, reclutamento di movimenti nazi-comunisti pro Eurasia e anti Europa, sostegno a ogni forma di separatismo, divulgazione teorico-pratica di un’ideologia secondo cui l’impianto costituzionale europeo è una barriera corrotta tra leader e popolo che minaccia con la perversione dei costumi, l’immigrazione, l’islam e magari la congiura demo-pluto-giudaico-massonica altri modelli di originaria innocenza in cui le formalità democratiche, la burocrazia terza, la separazione dei poteri, il principio di legalità sono superati dalle figure carismatiche del leader che guida il popolo dove lui sa…

 

Tutto questo non capita per caso, non è detto che possa ricondursi a un’unica regia di destabilizzazione europea ma certamente rappresenta uno scenario inquietante che va osservato con attenzione.

 

Soprattutto occorre recuperare le ragioni di fondo del nostro essere europei, convincerci che non si tratta di un accidente della storia ma di una conquista di cui essere orgogliosi, che va perfezionata, completata, sviluppata ma non sprecata, pena la perdita non di un passaporto e di una moneta bensì di un’identità che sola può restituirci l’ancoraggio perduto.

Michele Vietti, già vicepresidente del Csm, presidente della Fondazione Iniziativa Europa

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