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Donne che non sapevano dirlo

Stefania Vitulli

Fu stupro nel sonno o “selvaggia immaginazione femminile”? "Donne che parlano" di Miriam Toews, un libro tra fede e linguaggio

Da molte fonti diverse, il “plautdietsch” viene definito “Un linguaggio esclusivo, parlato da pochi eletti”. Nel suo romanzo “Donne che parlano” (Marcos y Marcos), Miriam Toews mette in bocca alla sua voce narrante una “Nota di traduzione” che dice così: “Le donne parlano in plautdietsch, o basso-tedesco, l’unica lingua che conoscono, nonché quella parlata da tutti i membri della colonia… Il plautdietsch è una lingua orale risalente al medioevo, moribonda, un guazzabuglio di tedesco, olandese, pomerano e frisone”. Se non lo si è mai sentito nominare, sembra dirci la Toews, non bisogna preoccuparsi: pochissime persone al mondo parlano il plautdietsch, e tutti quelli che lo parlano sono mennoniti. Visto il titolo del romanzo, l’informazione è determinante: anche se le donne mennonite parlano, pochissimi possono capirle. E questi pochissimi sono gli uomini della loro stessa comunità. Che succede quindi se quel che le donne avrebbero da denunciare riguarda proprio un crimine commesso da questi uomini?

 

“Donne che parlano” è la ricostruzione romanzata da Miriam Toews di quel che accadde in una colonia mennonita tra 2005 e 2013

“Il controllo culturale, il fondamentalismo, l’enfasi sulla punizione”. La rivelazione della libertà arriva, come una fucilata

“Donne che parlano” è la ricostruzione romanzata di quel che accadde nella colonia mennonita di Manitoba, in Bolivia, tra il 2005 e il 2013. Alcune donne vanno a dormire, vestire, sane, in ordine. E si risvegliano con il pigiama strappato, lenzuola macchiate di sangue e sperma, mal di testa, apatia e torpore invincibili. Hanno dei flash, di cui non sanno darsi spiegazione se non come frammenti di sogni: una ricorda che un uomo l’abbia presa con la forza in un campo. Un incubo, certo, non fosse che la mattina aveva fili d’erba tra i capelli. All’inizio le donne parlano solo con i membri della propria famiglia, pur appartenendo a una colonia di 2.500 persone governata da ministri del Consiglio ecclesiastico mennonita, un gruppo di uomini che ha come compito proprio l’ascolto e l’intervento. Le famiglie stanno zitte, però, perché ciascuna pensa di essere l’unica ad avere avuto per croce questa esperienza infamante, torbida, che presta il fianco al sospetto e all’ambiguità: chi ci dice – cara Sara che hai confessato per la prima volta e che ora hai due figlie adolescenti che a loro volta ti sussurrano di aver avuto questa terribile esperienza – che quel che tu racconti non sia frutto di “selvaggia immaginazione femminile”, o forse di una tresca clandestina, o ancora del fatto che il male si sia insinuato proprio nella vostra casa e che siano i demoni ad attaccarvi o che la punizione divina non ti abbia colpito giustamente per qualcosa che non vuoi rivelare?

 

Fin qui la storia vera, il cui esito, nel 2011, si apre su uno scenario raccapricciante: nella colonia di Manitoba nove uomini dai 19 ai 43 anni violentarono donne (oltre 130 vittime censite, ma si sospetta che il vero numero sia molto più alto) dai tre ai 65 anni, a partire dal 2005. Spruzzavano uno spray chimico – creato dal veterinario di una comunità vicina come anestetico per mucche – sugli infissi, aspettavano che avesse effetto e poi scivolavano nelle case, protetti da una oscurità totale. A Manitoba non c’è elettricità e, scrive la Toews, le case di notte sono come “piccole tombe”. La scoperta dei colpevoli avvenne per caso, non perché le vittime avessero denunciato. Anzi. Ad un certo punto, inascoltate, Sara e le altre avevano preso ad accettare quelle manifestazioni come un fatto della vita. Alla mattina cambiavano le lenzuola e di giorno lavoravano, cucinavano e cantavano inni.

 

Miriam Toews sa di che cosa scrive. Cresciuta a Winnipeg, in una comunità mennonita canadese, ha già raccontato la sua esperienza in “Un complicato atto d’amore”, romanzo che non a caso è un piccolo culto per gli adolescenti di tutto il mondo. La protagonista, Nomi, ha sedici anni e fa tutto quello che un adolescente vorrebbe sperimentare – bigia a scuola, si fa le canne, si rasa i capelli, esplora il sesso – ma che in una comunità come quella mennonita (pensare agli Amish non rende l’idea: qui parliamo di anabattisti tedeschi della prima ora, in cui la vita delle prime comunità cristiane viene presa a modello, la sofferenza è un premio e il massimo della frugalità diventa il minimo sindacale) è una bomba H.

 

Ancora oggi - dopo che suo padre e sua sorella, depressi, si sono suicidati e ad entrambi ha dedicato due romanzi-memoir – la Toews si dichiara una mennonita laica. Adora il ricordo della sua infanzia felice e detesta il momento in cui, adolescente, ha compreso che “il controllo culturale, il fondamentalismo, l’enfasi sulla punizione, il peccato, l’inferno” sono nocivi al massimo grado. Al punto che ogni giorno, adulta, controlla che non le vengano sintomi di depressione. E tuttavia sa che a salvarla è la prospettiva che ha guadagnato nel tempo: non poter parlare di ciò che accadeva nella comunità, osservarne l’ipocrisia, giorno dopo giorno sviluppò in lei un distacco ironico, uno humour sovversivo, o quello che in una intervista ha chiamato “cazzate-detector”. Ecco perché se liquidare “Donne che parlano” come un romanzo sulla violenza alle donne sarebbe scontato, visti i tempi, è invece doveroso pensare che gli si farebbe davvero un cattivo servizio, ghettizzandolo in una “zona” letteraria che inevitabilmente rende le storie che vi appartengono legate solo a un’epoca, a un fatto di attualità o a una forma di qualsivoglia protesta. E invece il modo che la Toews ha di narrare vince il tempo, anche se parte dalla notizia.

 

Nel romanzo ci sono otto donne, molto diverse una dall’altra, e un uomo, August Epp, che materialmente, oltre ad essere la voce narrante, dà voce alle donne: è infatti incaricato da una di loro, Ona, di cui è innamorato da sempre, di redigere i verbali delle riunioni in cui le donne dovranno decidere che atteggiamento avere verso i loro aggressori una volta che saranno tornati dal carcere. L’appartenenza mennonita prevede che li debbano perdonare, perché solo così avranno un posto in paradiso. Se questo non accadrà, le donne dovranno lasciare la comunità e uscire nel mondo. Del quale, non dimentichiamolo, non solo non sanno nulla, ma non conoscono la lingua. August invece conosce l’inglese, perché la sua famiglia è stata espulsa da Molotschna – così si chiama la colonia nel romanzo – molti anni prima, dopo essere stata scomunicata. Sull’orlo del suicidio, scomparso il padre e morta sua madre, decide che non perderà nulla tornando a Molotschna. E chiede di essere reintegrato tra i mennoniti.

 

“Donne che parlano” consiste essenzialmente di quello che la Toews immagina che le otto vittime, tradotte e verbalizzate da August, si siano dette. Sotto pressione, sotto shock e in segreto. Confrontandosi in questi immaginari due giorni di riunioni private. E’ l’ingresso privilegiato in uno spogliatoio femminile, un gineceo medioevale ma anche brutalmente contemporaneo, da cui osservare ribellioni e ingenuità che, tirate le somme, sono umane, non “femminili”. Ma è soprattutto un inno – nel vero senso della parola – alla narrazione, che è cosa ben diversa dalla parola detta per far filosofia: le donne della Toews non esprimono giudizi, non costruiscono mondi o sovrastrutture, non accusano mai. Semmai rievocano, mettono in scena e raccontano storie che permettono loro di scegliere, cambiare, agire. Perché “la coscienza è resistenza, la fede è azione e il tempo stringe”: solo così la vita risponde e la rivelazione della libertà arriva, come una fucilata. Anche dopo la violenza più grande.

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