Perdere il giorno per la notte. Due romanzi del tempo del boom, che era già crisi

Giacomo Giossi

Arpino e Simonetta. Storie (non) parallele di infelicità maschile

Sono ricomparsi all’improvviso, senza alcun segno di evidente necessità, sono ricomparsi apparentemente (come sempre) fuori da ogni discorso dominante e anche all’infuori da alcuna logica contemporanea. Sono riapparsi così, i romanzi di Umberto Simonetta e Giovanni Arpino, rispettivamente “Tirar mattina” (Baldini + Castoldi) e “Sei stato felice, Giovanni” (Minimum Fax), ossia come due oggetti scagliati all’interno di discorsi diversi e anche per certi versi estranei. Eppure sembrano dialogare con il nostro presente, e anche tra di loro, nonostante i dieci anni che li separano e nonostante le biografie di due autori decisamente diversi l’uno dall’altro.

 

Si potrebbe dire che entrambi i romanzi sono pervasi da un’angoscia, quella del quattrino o del danè come direbbe meglio in milanese Umberto Simonetta che attraversa come un letale senso di colpa chiunque tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’esplosione del boom non sia in grado di dimostrare che la conquista della libertà abbia avuto un senso. Tutti fanno “i soldi” tutti hanno dunque successo e automobili e bagno in casa e lavatrice e ancora vacanze assicurate in riviera.

Tutti, dove quel tutti indica chi prima camminava a fianco e ora vola dieci metri sopra terra, magari a bordo di una spider o di una convertibile come allora ancora si usava dire. Tutti che prima facevano la fame e ora sanno dare un senso alla propria vita, una rinascita obbligatoria all’interno di un entusiasmo collettivo bruciante e pericoloso perché scottarsi e perdere il giro giusto è facilissimo e soprattutto perché la giovinezza dura un soffio e i trent’anni sono già lì dietro l’angolo a dare la forma ad un uomo fatto e molte volte già bello che finito. Sì perché il discorso qui riguarda solo gli uomini, la ricchezza la fanno loro, le donne stanno due passi dietro a testimoniare o peggio ancora a farsi testimoniare dai maschi impegnati nella rinascita di un paese che vedrà proprio attraverso un boom anabolizzante l’esplosione di una crisi – quella del maschio – che già “Tirar mattina” e “Sei stato felice, Giovanni” in buona parte raccontano come un fatto perenne, un accadimento ineluttabile e che da allora si consolida all’interno di una crisi non critica.

Una crisi appiccicosa che aderisce agli interstizi di un paese che si ritrova cinquant’anni dopo avvinghiato a veri e propri pensieri di rendita dentro ai quali il gioco è sempre chiuso ed obbligato tra relazioni impossibili quanto ingovernabili e rendite sempre più consunte.

Giovanni Arpino scrittore anarcoide e commentatore sportivo mai banale pone così il suo romanzo in una chiave neorealista che deve molto a Cesare Pavese, ma che per certi versi anticipa in parte l’asprezza de “La vita agra” di Bianciardi. Scritto a Genova e su Genova, “Sei stato felice, Giovanni” racconta le disavventure di un protagonista in perenne lotta con la sua inadeguatezza nel darsi da mangiare, amore e infine felicità, una rincorsa continua in una comica quanto malinconica slapstick. Umberto Simonetta invece opta per un linguaggio che va oltre il neorealismo e affronta senza indugio la velocità della vita come della notte consumate entrambe di locale in locale, di strada in strada in un’ubriacatura di una città, Milano che non è ancora (e ancora non è) una metropoli, ma che rivela la durezza del suo corpo urbano piccolo eppure già maledettamente estraneo ai suoi abitanti ultimi indigeni di un mondo in via di sparizione, quello della mala e di una resistenza popolare che precedette il fascismo e che pare a liberazione avvenuta spegnersi di fronte al luccichio delle vetrine “Tre Marie”, anticipo di una brandizzazione ancora ingenua. Angoscia e nostalgia certamente, ma anche una buona dose di ironia, una cinica ironia che sferza le pagine di entrambi pure così diversi: uno, Arpino, profondamente scrittore nella sua produzione e nelle sue intuizioni (fece ad esempio scoprire in Italia Osvaldo Soriano) e l’altro, Simonetta, sempre a cavallo tra commedia e canzonette, teatro e scrittura con l’inquietudine tipica di chi sapeva in una battuta risolvere una sera.

Due autori che oggi sembrano rincontrarsi dopo essere stati forse offuscati in vita da compagni di viaggio tra i più importanti scrittori italiani del Novecento che pure non sembrano oggi in grado di raccontare con tale immediatezza quanto Arpino e Simonetta la nostra confusa età dell’inadeguatezza buttando a mare certamente Hemingway e la sua epica, ma rifiutando anche il ribellismo disperato di Bianciardi, l’ideologismo di Vittorini (che pure coglie il valore di Arpino) e la dolenza di Pavese. Buttare a mare anche i maestri e con loro magari anche qualche vicino di banco; una ricerca di sé che si intreccia con la fuga, un girare continuamente attorno alle cose senza mai affrontarle, un movimento impazzito che fugge da ogni regola perché contro ogni regola va in frantumi la felicità.

Un movimento solitario che racconta del perdere il giorno in nome della notte, ma soprattutto dell’assenza del femminile che viene di volta in volta ricacciato in un ruolo definito e preciso: ed è proprio qui che la crisi si fa conclamata, ossia nell’incapacità dei protagonisti di cogliere il desiderio di liberazione nella sua totalità togliendo le briglie anche all’ultimo laccio, quello del rapporto con il femminile che diviene invece l’occasione esclusiva della sconfitta. La donna e l’impossibilità di liberarla diviene così testimone di una felicità passata. Una crisi maschile che obbliga e costringe il femminile ad un ruolo che non le appartiene riducendo il maschio al ruolo di padrone servile che abbandona propri desideri in uno stagno di nostalgico abbandono. “Tirar mattina” e “Sei stato felice, Giovanni” raccontano in maniera scarna il circolo vizioso dentro al quale si fronteggiano libertà e abbandono in un equilibrio che si fa di pagina in pagina sempre più instabile. La libertà in fondo, sembrano dirci i due rassegnati protagonisti, non è fatta per i maschi d’oggi e nemmeno per quelli di ieri troppo adusi a facili abbandoni.

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