Giorgio Albertazzi (1923-2016)

La forza di una voce sola

Costanza Di Quattro

Grido di liberazione, inno alla giustizia o cavallo di battaglia del mattatore. Un monologo salverà il teatro

C’è un tempo irreale che intercorre tra lo spegnersi delle luci in sala e l’apertura del sipario. E’ un tempo sospeso tra l’attesa e il silenzio, tra gli ultimi colpi di tosse e la ricerca di una posizione più comoda in poltrona. Un tempo di attenzione, di concentrazione, di religioso silenzio, di totale dedizione.

 

Poi si apre il sipario e il miracolo del teatro si manifesta come una rivelazione, come la consacrazione di un mistero divenuto verità. Un attore, un pubblico, un palcoscenico. La voce e l’ascolto come unici elementi di una magia senza tempo. Odiato e amatissimo, vilipeso ed esaltato, punto di partenza dal quale sfuggire, punto di ritorno nel quale morire. Il teatro vive in bilico tra l’incertezza di una esistenza morente e la certezza di rimanere il primo, vero e unico amore di qualunque attore. Un monologo lo salverà.

 

Nella penombra di un silenzio nero di quinte e rosso di tende si esalta la volontà di sfuggire alla vita, si concretizza la teoria di Eduardo

Potranno finire i teatri ma non finirà mai l’amore per il teatro. Dentro questa scatola nera fatta di tralicci, lacrime, sudore, doghe di legno e smisurata gioia la parola si fa carne, verità, fede. Come nella celebrazione di una messa si attende il miracolo dell’eucarestia, così in teatro ci si aspetta la profezia della verità. Nella penombra di un silenzio nero di quinte e rosso di tende si esalta la volontà di sfuggire alla vita, si concretizza quella teoria che Eduardo De Filippo aveva brevemente riassunto in una frase diventata l’essenza stessa del teatro: “Nel teatro si vive sul serio quello che gli altri recitano male nella vita”. Ed è forse questa esasperata e inutile ricerca della verità che ci spinge, incoscientemente, a viverlo il teatro, a farlo il teatro, a investire, senza ritorno e senza guadagno, su questo luogo maledetto e sacro, unico e infinito, bugiardo e verissimo. Eppure sembra agonizzare, perennemente pronto a morire, ostinatamente deciso a risorgere. Con un ultimo rantolo saluta una morte annunciata e con un improvviso canto del cigno urla la sua eternità. Fin quando ci sarà anche un solo spettatore disposto ad ascoltare l’elucubrazione folle e vera di un attore, vi sarà teatro. Un monologo lo salverà.

 

E’ proprio di follia che si parla quando si affronta il tema “teatro”. La follia di chi sogna, di chi spera, di chi crede, di chi ha voglia di raccontare qualcosa, di chi anela a conoscere qualcosa. E’ la follia del giusto, del vero, di chi sente l’esigenza di liberarsi attraverso una catarsi, un rito di purificazione e iniziazione che si celebra a ogni apertura di sipario. E’ la follia più volte sottolineata da Pirandello, che nel “Berretto a sonagli” fa giocare Ciampa, il personaggio più complesso della tragicommedia, nel difficile equilibrio tra “corda pazza” e “corda civile”. “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile e la pazza… ma può venire il momento che le acque si intorbidano. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo. Che poi se non mi riesce in nessun modo, sferro, signora la corda pazza, perdo la vista dagli occhi e non so più quello che faccio”. E’ quindi la corda pazza la grande forza del teatro non soltanto pirandelliano ma del teatro di ieri, di oggi e di domani. L’esaltazione della follia come mezzo per arrivare alla verità, per confessare la verità o meglio per liberarsi da una verità.

 

Mario Perrotta, Ascanio Celestini e Pietro Montandon. L’irresistibile Proietti, l’Adriano del grande Albertazzi

Ecco svelata la grandezza del teatro. Ecco svelata la magia del teatro, quel luogo senza tempo e senza spazio dove, travestiti da pazzi o semplicemente da attori, ci si può confessare anche la più difficile delle menzogne.

 

Sovente questa confessione è affidata a un solo uomo, a una sola donna. Monologhista e profeta. La sua voce taglia le tenebre, il suo grido squarcia l’infinito, la sua forza scuote l’immobilismo che spesso condiziona la nostra ragione. Ed effettivamente pensandoci bene quell’attore solo sulla scena è la summa del teatro per eccellenza. Rappresenta, nella solitudine del suo monologo, la perfezione di una pièce teatrale, l’esaltazione della più grande forma d’arte mai concepita.

 

Nessun’altra forma di teatro ha la forza dirompente del monologo. Scontro sordo e struggente tra chi parla e chi ascolta, tra chi sogna e chi vive, tra chi racconta e chi si impasta di parole. La storia del teatro è piena di monologhi. Dal teatro greco ai nostri giorni il monologo rimane l’espressione più violenta e più autentica del teatro. Basti pensare che prologo ed epilogo sono sempre affidati a una voce sola, una voce che si erge a unica, vera, giusta. Spesso inserito all’interno di spettacoli ben più ampi e costruiti secondo il gioco delle parti, altre volte espressione di una forma teatrale a sé, il monologo ha sempre rappresentato, sia nella prima che nella seconda veste, il momento più alto e intimistico all’interno della sacralità teatrale.

 

Nessun attore è riuscito a sfuggire al grande fascino di cimentarsi in un monologo. Un’ora e un quarto circa di occhi contro occhi, buio in sala e luci sul palcoscenico. Il sipario che si apre, un applauso accondiscendente e poi lo scontro/incontro. Il sudore che sgorga, la voce che si accorda come una chitarra sulla tonalità giusta, la tensione che sale, la saliva che manca, l’emozione che cresce. I minuti scorrono, il palcoscenico è diventato un grembo materno, il pubblico un confessore saggio. Allora la tensione comincia a scemare, il battito si fa più regolare, il sipario si chiude, il sipario si riapre, il giudizio nella forza di un applauso, la resistenza del coraggio. Uno contro tutti, uno a favore di tutti.

 

La corda pazza. L’esaltazione della follia come mezzo per arrivare alla verità, per confessarla o meglio, per liberarsi da una verità

Il monologo è una vertigine teatrale, una carica esplosiva di adrenalina, una ricerca disperata di affermare la propria capacità, la propria memoria, il proprio ego.

 

Ed oggi più che mai, in questa società egocentrica ed individualista, dove per un attimo di visibilità sacrificheremmo la libertà di un’esistenza intera, il monologo si pone come salvifico e necessario. In questa società che si fa scudo di una eterna crisi economica e morale per nascondere una crisi ben più complessa di natura essenzialmente sociale, il monologo diventa all’un tempo un espediente scaltro per risparmiare e apparire, esaltazione congiunta del proprio ego e della propria tasca. Pochi maledetti e subito insomma. Del resto siamo un po’ lontani dall’immagine di quelle carovane seicentesche di commedia dell’arte, di otto uomini e due donne in giro per il mondo a proporre i loro spettacoli. Adesso siamo pieni di produzioni, segretari che fanno da segretari ad altri segretari, contratti blindatissimi, schede tecniche che sembrano messaggi in codice dei servizi segreti, tecnici di fiducia, fonici di fiducia, accompagnatori di fiducia, truccatori di fiducia. Il teatro italiano è andato avanti per un po’ sulla fiducia creando un dissesto economico non indifferente e adesso che forse di fiducia ne abbiamo tutti un po’ di meno, si ritorna all’essenzialità. Un attore, un faro, un pubblico. Ritorno al teatro, ritorno al monologo.

 

Sale dunque la febbre del monologo, sale per ragioni forse più prosaiche che poetiche ma come sempre dinanzi alle difficoltà i nuovi talenti si industriano, i grandi talenti si adeguano, i falsi talenti muoiono.

 

Sale anche per ragioni civili, come grido di liberazione, come inno alla giustizia. Basti vedere chi sono i monologhisti di oggi, Don Chisciotte alla deriva, pronti a una guerra di parole contro irredimibili mulini a vento. Ed è proprio di guerra che parla ad esempio Mario Perrotta nel suo monologo “Milite ignoto-quindicidiciotto”, spettacolo straordinariamente intenso che evoca le mostruosità di una guerra fatta appunto da “ignoti”, ragazzi mandati allo sbaraglio di una cieca follia, sottolineandone le divergenze linguistiche e giocando, per l’appunto, sui diversi registri dialettici. Un modo brillante per raccontare la storia partendo dal particolare per poi sfociare nell’universale. Cosi come Ascanio Celestini che non il suo monologo “Laika” dà voce ai vinti, agli emarginati guardandoli attraverso una prospettiva insolita e diversa, quella di un Gesù che non ha nessuna intenzione di cambiare l’ordine delle cose ma che comodamente seduto nella periferia di una città osserva, ascolta e riflette. Anche questo dunque un monologo di riflessione, che attraverso un gioco dialettico di grande intelligenza e sorprendente ironia punta a temi sociali ma anche religiosi e teologici. Ma la sfilza dei monologhisti di natura sociale non finisce certo qui. Moltissimi gli attori che a oggi, muniti solo della loro voce, come giullari di corte, aedi del passato o profeti del futuro, lasciano una traccia di sé nell’animo di chi li ascolta. E non è solo il sociale che il monologhista racconta nella sua accorata arringa in difesa del mondo. Spesso diventa un cantastorie senza tempo, un cuntista di sogni, di favole antiche, di emozioni lontane. Pietro Montandon ad esempio nel suo monologo “Maruzza Musumeci”, opera camilleriana imbibita di tradizione e fantasia, riesce, da solo sulla scena, a far vivere allo spettatore l’incanto della favola. Trascina con la placidità del vegliardo il pubblico nell’estasi del racconto. Non storytelling bensì racconto, quello nostro, quello tutto italiano, cifra e vanto di una terra che forse non c’è più.

 

Una vertigine teatrale, una ricerca disperata di affermare le proprie capacità, la propria memoria, il proprio ego

E sarebbe impossibile ripercorrendo i grandi monologhi non pensare a Gigi Proietti, a quell’“A me gli occhi please” che dal 1976 a oggi rimane termine fisso di bellezza teatrale, gioco dialettico e ironico, comicità intelligente e pura. Indimenticabile e sempre attuale lo sketch di quattro minuti tutto dedicato ai cantanti francesi, completamente vestiti di nero (probabilmente anche nelle mutande) esistenzialisti piacioni, con una sigaretta accesa e lo sguardo perduto nel vuoto. Proietti riesce, con un vocabolario piuttosto scarno costituito da poche ma sentite parole – “nun me rompe er ca” – a tenere incollate, esaudendo la richiesta esplicitata dallo stesso titolo, migliaia di persone. Esempio lampante di come la bellezza spesso riesce a valicare il confine dei contenuti.

 

E in questo piccolo excursus dei monologhisti come non pensare a lui, stella che adesso brilla solo nel firmamento. Come non ripensare, in questo inno alla forza del monologo, a quelle “Memorie di Adriano” più e più volte recitate da Giorgio Albertazzi. “… Il teatro è il segreto più gelosamente conservato della mia vita”, racconta l’imperatore con la voce del grande attore. “Il teatro! Misi a profitto la familiarità che avevo con la gente di teatro che scandalizzava tanto la mia famiglia, le lezioni di recitazione dell’attore tragico Olimpio costituirono per lunghi mesi il mio compito più arduo, il più piacevole della mia vita. La tecnica che mi toccò elaborare mi servì più tardi nelle udienze imperiali. Quelle lezioni erano un apprendistato per il potere. Ma io ho sempre cercato la libertà più che il potere e quest’ultimo, soltanto perché in parte secondava la libertà”.

 

E’ ritornato il monologo o forse sarebbe meglio dire che non se n’era mai andato. Eterna misurazione di se stessi. Eterno punto d’arrivo di qualunque attore, di chi vive tra sacrifici e gloria. Di chi ha regalato ogni sera un battito di cuore al teatro; di chi continuerà a regalarglielo anche quando il cuore si sarà fermato.

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