Uno dei graffiti di 5Pointz (foto di mattharvey1, via Flickr)

I graffitari che rubavano i muri ora vogliono essere risarciti dai padroni dei muri

Francesco Stocchi

Dollari, avvocati e senatori. Negli Stati Uniti l’arte ribelle non c’è più

Non si sa da che parte stare. Coglie di sorpresa la notizia, con effetti che destabilizzano le poche certezze nelle quali rifugiamo i nostri cliché. Ci sorprende sopratutto se la notizia proviene dagli Stati Uniti, “baluardo della democrazia” (ecco un cliché a noi molto caro), dove malgrado le mille contraddizioni (eccone un altro) e la dipendenza nei confronti delle iperboli, l’applicazione delle regole di condotta quotidiana sembra essere materia chiara, semplice e avversa a ogni ambiguità. Tutto il contrario rispetto all’Italia, e potremmo adottare l’efficace metafora che contrappone i nostri sentieri tortuosi, affascinanti ma così complessi e pericolosi, alle grandi highways, rigide strisce nere che tagliano in due l’orizzonte, dove poter guidare serafici con il cruise control.

 

Ci sorprendiamo quindi quando leggiamo che il giudice Frederic Block del tribunale del New Jersey ha condannato Gerald Wolkoff, proprietario del complesso noto come 5Pointz, a risarcire tutti coloro i quali lo avevano, nel tempo, coperto di graffiti. Anni fa, Wolkoff concesse ai vari graffitari della zona l’uso delle immense facciate del proprio complesso, una sorta di temporaneo “permesso di violare”, espressione di uno spirito aperto quanto finemente imprenditoriale. Decisione che nel tempo si dimostrò valida fino a far diventare 5Pointz “la mecca del graffito”. Ebbene, l’immobiliarista Wolkoff decide che è tempo di investire nel suo gigantesco edificio, e nel 2013 lo demolisce per costruirci un complesso residenziale. Da un giorno all’altro i graffiti spariscono da quella che era ormai meta di attrazione turistica, e 45 dei loro autori, sentendosi defraudati delle libertà dei loro diritti espressivi, denunciano il proprietario per l’oltraggio. In una decisione lunga cento pagine, il giudice Block ha stabilito il risarcimento di 150 mila dollari per ciascuna delle 45 opere cancellate, un totale di 6,75 milioni di dollari.

 

Il caso non ha precedenti data la natura effimera del graffito, ma qui non è discussione il valore o meno del graffito in sé quanto la considerazione della sua natura ribelle, intrinsecamente sovversiva, rispetto ai diritti di proprietà privata. Chi per mezzo dei graffiti occupa i muri delle strade, si arrampica pericolosamente su ponti o tetti per raggiungere luoghi con maggiore visibilità, chi ricopre di scritte carrozze di treni, intende operare un disturbo visivo, irrompendo incondizionatamente in uno spazio pubblico per occuparlo con il proprio logo. La maggior parte dei graffiti-tag, tra i primi, i più diffusi, non rappresentano altro che loro stessi, riassumendosi in impulsi auto-affermativi. Le scritte portano lo pseudonimo dell’autore che ha adottato un certo stile, grafia e colore che divengono nel tempo firma riconoscibile. Esercizi di stile tautologici dove il messaggio politico risiede nell’azione stessa di esecuzione, non nel suo contenuto specifico. Tutti i graffiti sembrano voler dire: “Io ci sono di fronte a voi, ho occupato questo spazio urbano rompendo le regole sociali e la vostra inerte compostezza. Ho colorato il mio quartiere grigio e sarò il più ubiquo di tutti gli altri. Mi troverete ovunque e se il mio segno verrà cancellato ne rifarò altri dieci”. Il gesto è dirompente di costituzione, esplicitamente effimero e rinnovabile, rapido per necessità, e da vita a motivi ondulati dalla struttura semplice e caricaturale. La vernice spray come strumento è quanto ci sia di più efficace per operare di notte, velocemente, su superfici vaste e con un’ampia gamma di colori a disposizione. Lo stile del graffito è quindi espressione diretta delle condizioni dalle quali è nato e la sua natura ribelle, spavalda e sotterranea, è inseparabile da esso. Una disubbidienza più o meno civile, sicuramente non violenta che ha avuto massima espressione e crescita proprio in quei luoghi dove vigeva maggior controllo da parte delle autorità. In Italia, a differenza della Francia, i graffiti ci sono ma si limitano perlopiù a fastidiosi imbrattamenti. Manca il mordente vista l’impunità garantita, riducendosi per lo più a tracce di passaggio alla stregua di quelle che lasciano i cani con un padrone indisciplinato.

 

La storia dei graffiti è cresciuta negli anni, espandendosi oltre i suoi confini culturali. Esportazione statunitense che ha fatto scuola in tutto il mondo, dando forma a un’inedita, ambigua relazione creativo-teppista, fino a conformarsi per colpa della generale accettazione e conseguente regolamentazione nei suoi confronti. E’ accaduto qualcosa di simile con la musica rap, colonna musicale del graffito, come per la gran parte delle sottoculture, grandi vittime di internet, che una volta inglobate nello stile mainstream si trovano incastrate tra puristi-avanguardisti e riformatori-nostalgici, dove l’appartenenza a un ristretto gruppo accomunato da un interesse condiviso diventa fatto così virtuale e incontrollabile da diluirne il contenuto.

 

Critici d’arte hanno iniziato da un po’ di tempo a difendere i graffiti quale espressione della nostra contemporaneità, inserendoli nel lignaggio della storia dell’arte, senza comprensione alcuna dell’identità del graffito stesso, banalmente assurto a sinonimo di gioventù. Posizioni prese per paura di non sentirti abbastanza attuali, fuori dal discorso corrente, che hanno portato all’allestimento di tristi muri (gli “hall of fame”) prestati a far esprimere figuranti con bombolette in mano che tanto ricordano gatti senza unghie che giocano a fare le tigri. La rivoluzione non si fa chiedendo il permesso a papà. Il graffito se anestetizzato, con nulla verso cui contrapporsi, diventa stilema grafico che non porta con sé un granché di creativo, nulla di artistico, e soprattutto privo del messaggio che lo ha fatto nascere. E quando assurge il manierismo, si affievolisce l’urgenza della demarcazione del limite e ci si conforma proprio con quell’establishment una volta nemico: ci si sente quindi pronti a rivendicare, invece che continuare a occupare. Ora che tutto sembra poter essere etichettato come artistico, ora che ogni cosa sembra necessitare di una curatela per essere validata, i graffitari sembrano assolutamente al passo con i tempi, pronti a denunciare l’abuso di una loro azione abusiva.

 

La nuova campagna di H&M presenta un nuovo capo di fronte a un muro nel campo sportivo William Sheridan a Brooklyn, più precisamente a Williamsburg, roccaforte hipster. Sul muro si riconosce un graffito di “Revok” (Jason Williams) che ha prontamente intimato H&M a cancellare la campagna causa l’uso non autorizzato della sua “opera d’arte originale”. Il modo in cui l’azienda usa la sua opera è “dannoso ed è probabile che induca i consumatori a credere che esista una relazione tra le parti”. Risposta secca del colosso di abbigliamento svedese: “Date le circostanze, in cui le opere d’arte rivendicate dal cliente sono il prodotto di una condotta criminale, il signor Williams non ha diritti di copyright da reclamare”. Per tutta risposta, gli artisti di strada ora chiedono il boicottaggio di H&M a sostegno di ‘Revok’. E poi, sempre a New York, il senatore Brad Hoylman ha chiesto all’immobiliarista Gemini Rosemont di ripristinare il graffito di Banksy, rimosso dalla facciata di un suo edificio sulla 14th strada. “Gente come lei ha la responsabilità di mantenere New York un posto speciale e quest’opera dovrebbe essere di dominio pubblico in modo permanente”. Giudici, senatori, denunce, la questione graffiti sembra voler cercare verità identitaria negli uffici più che nelle strade.

  

In un periodo storico incastrato dalla proliferazione di codici etici, ci si chiede dove sia finita quella sana dirompenza sociale del “noi contro tutti” che ha dato ai graffiti ragione di esistere. Difenderli per anestetizzarli definitivamente? Non si sa proprio da che parte stare e forse questa è la cosa peggiore.

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