La Royal Academy of Arts ospiterà la mostra "Oceania" (Foto Wikipedia)

Lasciate perdere Banksy, la mostra da vedere è “Oceania” a Londra

Francesco Bonami

Storia, arte e spiriti irosi. Un viaggio meraviglioso alla Royal Academy 

Durante la fiera dell’arte di Firenze e nel bel mezzo di quella pagliacciata organizzata da Sotheby’s e Banksy dell’opera che si autodistrugge sprezzante delle regole del sistema dell’arte capitalistico, la mostra più contemporanea da vedere a Londra e forse nel mondo è “Oceania” alla Royal Academy. Un viaggio meraviglioso sul vascello del senso di colpa occidentale e imperialista . Una sorta di #metoo etnico. Vi abbiamo razziato ben bene il meglio che avevate ma ora ve lo raccontiamo con estrema onestà senza scuse e dita dietro le quali nasconderci.

 

In nome di questo sentimento riparatore, i curatori della mostra hanno evitato accuratamente di prendere opera od oggetti da collezioni private, non tanto per una questione morale, ma per evitare agli eventuali prestatori il rischio che qualche incredibile scultura potesse essere reclamata da qualche minuscola ma non meno agguerrita nazione galleggiante nel sud dell’oceano pacifico.

 

I musei dell’occidente oggi stanno recitando complicati mea culpa più o meno ipocriti. E’ di pochi giorni fa la notizia che il Metropolitan Museum di New York ha elevato l’arte dei nativi americani, relegati nel ghetto etnico, ad American art senza distinzioni di sorta. Warpa Tanka Kuciyela, un pittore oglala lakota del South Dakota, potrà essere visto accanto a Jackson Pollock, anche se alcuni dimenticano che nella lingua di molte tribù native americane la parola arte non esisteva nemmeno. Non tanto perché non cosiderassero l’arte un attività degna ma perché tutto nella vita ha un suo aspetto artistico e creativo.

 

Quindi si potrebbe dire che “American art” riferita a certi artefatti Sioux o di qualche altra tribù è un’invenzione ancora una volta occidentale. Insomma, da qualsiasi punto si guardi la questione, si sbaglia sempre e si è scorretti politicamente, sessualmente, razzialmente. Ma torniamo alla mostra “Oceania”, della cui produzione creativa non sono assolutamente esperto, quindi la mia è un’esperienza vergine di spettatore che rimane affascinato dal trovarsi circondato da oggetti e opere d’arte eccezionali sulle quali mediocri artisti occidentali e contemporanei si sono costruiti lucrative carriere.

 

Davanti Tino Aitu – meglio conosciuto come Ko Kawe e soprannominato Kave, una figura divina della metà dell’800 che arriva da Nukuoro, che non è in Sardegna ma nelle Isole Caroline ed è di proprietà del Museum fur Volkerkunde di Amburgo – l’artista gettonatissimo inglese Anthony Gormely dovrebbe vergognarsi, non tanto per la similitudine delle sue sculture con Kave ma per il fatto che pur avendone fatte centinaia non è mai riuscito a trovare l’intensità immediata di questo piccolo dio sconosciuto e lontano che non si sa bene nemmeno a cosa servisse ma che è il pezzo centrale e più importante delle mostra, assieme a un mostro hawaiano alto più di due metri e mezzo: Ki’i, immagine del dio Ku detto anche The Island Snatcher, ossia uno che se s’incacchiava ti faceva a pezzi un'isola intera.

 

Un’opera estremamente rara perché le Hawaii furono le isole più saccheggiate e svuotate. I curatori della mostra ci tengono a sottolineare che la civiltà – anzi, le civiltà – che il capitano James Cook incontrò fra il 1768 e il 1780 – anzi il 1779 –, quando fu ucciso appunto alle Hawaii, non erano nuove ma esistevano parallelamente alla civiltà occidentale da migliaia di anni, ignare a noi e noi ignari a loro, senza che questo avesse creato particolari problemi a nessuno. I problemi iniziarono appunto quando occidente e oceania fecero conoscenza. Poiché noi occidentali abbiamo il vizio di farci sempre gli affari degli altri, una volta arrivati nell’immenso mondo dell’oceania iniziammo a dettare le nostre regole, diffondere le nostre religioni e le nostre malattie.

 

Quelle cose che per le diverse civiltà e società oceaniche non erano solo arte ma strumenti per negoziare il loro rapporto con le loro divinità e i molti incazzosi spiriti, furono considerate dagli occidentali come venale merce di scambio e come oggetti carichi di valore estetico e commerciale svuotato spesso del loro valore simbolico. Gli oceanici, essendo anche loro esseri umani come noi alla fine diventarono sensibili al valore economico della loro produzione e così spesso finirono per produrre cose che soddisfecero l’intruso divenuto conquistatore e poi banalmente un cliente come gli altri. La mostra è divisa in tre sezioni “Viaggio”, “La creazione dei luoghi”, “L’incontro”, e in queste tre sezioni altre sottocategorie che dividono arte e artefatti in oggetti rituali usa e getta, opere celebrative che venivano tramandate da un capo o re al successore, oggetti funzionali.

 

Alcuni puristi hanno lamentato che questa divisione non dà giustizia alla varietà e molteplicità delle tantissime diverse culture che da un’isola o un arcipelago all’altro cambiavano radicalmente. In effetti dalla Tobi Island all’isola Rapa Nui ci sono più di diecimila chilometri , mettere quello che facevano i tobini con quello che facevano i rapanuini è come mettere nella stessa stanza un’opera fatta in Portogallo e una in Pakistan sotto il capello euroasiatico. Ma gli specialisti sono la morte civile per qualsiasi mostra, rovinando allo spettatore medio come il sottoscritto il piacere di scoprire un mondo per la maggior parte sconosciuto.

 

Nella mostra non si parla di quell’interessante fenomeno che era lo scambio cerimoniale del Kularing nelle isole Trobiadi, in mezzo al mare a duemila passi dalla Papua New Guinea, reso famoso dagli scritti dell’antropologo Bronislaw Malinowski. Di fatto il Kularing era secondo me più o meno come il mercato dell’arte contemporanea di oggi, un continuo scambio di oggetti che in partenza non hanno nessun valore e che grazie al continuo scambio circolare finiscono per averne uno a volte altissimo e magari insensato. Questo per concludere con una banalissima considerazione: tutto il mondo in fin dei conti è stato sempre un piccolo paese.

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