Arturo Toscanini con la moglie (foto LaPresse)

Il giallo che sfiorò Toscanini

Jolanda Bufalini

Nel 1935 l’assassinio del suo medico di fiducia e amico. Nuove indagini da romanzo, con colpi di scena

Piazze è una frazione del comune di Cetona, fino a pochi anni fa il viaggiatore poteva mangiare e alloggiare alla Locanda Toscanini, sulla omonima strada. La doppia intitolazione, della pensione e della strada, non è casuale, il maestro, negli anni Trenta, trascorse infatti lunghi periodi fra le mura di pietra della locanda che, sul lato opposto al borgo, affacciano tuttora verso la campagna senese. Ed è proprio un pranzo alla Locanda Toscanini che ha offerto a Filippo Iannarone, romano che vive in Germania, avvocato e imprenditore, il primo spunto per cimentarsi da romanziere con la vicenda raccontata in Il complotto Toscanini (Piemme, 400 pp., 19,90 euro).

 

In una grande villa di proprietà, viveva a Piazze il dottor Alberto Rinaldi, creatore di una efficace terapia contro l’artrite e i dolori alle ossa. Il maestro soffriva di una nevralgia invalidante alla spalla destra, che lo aveva costretto a rinunciare a importanti impegni, come avvenne nella stagione 1931-1932, con la Philharmonic Symphony Orchestra di New York, di cui era direttore stabile. La terapia del dottor Rinaldi era, dunque, la ragione che lo aveva portato in quella località semisconosciuta e non ancora frequentata, come poi è avvenuto, dal jet set internazionale. 

 

Il dottor Alberto Rinaldi, creatore di una efficace terapia contro l’artrite e i dolori alle ossa, viveva in una frazione di Cetona

Rinaldi non era un professorone, non aveva titoli accademici: scapolo e senza figli, ricco di famiglia, aveva potuto permettersi di lasciare la condotta medica per dedicarsi agli studi farmacologici e alle applicazioni del suo mix antiflogistico, curava contadini piegati dall’artrosi e signori che venivano da fuori, facendo pagare a discrezione, ora niente ora molto, a seconda delle condizioni economiche del paziente. Era diventato sufficientemente famoso da essere indicato al disperato Toscanini dal professor Valeri del Gabinetto radiologico di Firenze. Nelle lettere del musicista pubblicate da Harvey Sacks, nel 1932 si fa spesso riferimento agli ottimi risultati della cura, il 28 aprile in un telegramma alla moglie Carla da New York: “Concerto ottenuto esito trionfale artisticamente e materialmente sono soddisfattissimo braccio benissimo”. Sempre da New York, il 6 ottobre: “Braccio risponde perfettamente”. 

 

Un così illustre paziente aggiunse nuova fama alla terapia Rinaldi, sicché il paesello visse un triennio radioso. Pazienti importanti arrivavano da Roma, da Siena, dagli Stati Uniti d’America. Ministri, industriali come i Gucci, i Ferragamo, gli Streglio, Umberto Nobile e, dall’America, Clara Clemens, figlia di Mark Twain, Italia Garibaldi, nipote dell’Eroe dei due mondi, ma, soprattutto, musicisti, il maestro Molinari, che dirigeva allora all’Augusteo di Roma, l’arpista Ada Sassoli, pianisti, il tenore Fagoaga, sicché dalle finestre delle vecchie case si diffondevano le note degli strumenti musicali, delle voci in esercizio. Nel paese si fecero investimenti per adeguarsi, perché all’inizio gli ospiti, per prendere un bagno, dovevano recarsi sino al Diurno della stazione ferroviaria di Chiusi. I benefici, per gli abitanti del borgo, derivanti da quel boom da turismo sanitario non furono solo di ordine materiale, la frequentazione del bel mondo procurò agli animi più sensibili, in particolare alle figlie del padrone che servivano alla locanda, ricordi indelebili di una stagione irripetibile. Ragazze e ragazzi impararono le tendenze della moda, i comportamenti da tenere in pubblico, stile, e i più svegli assorbirono le suggestioni culturali, le tendenze liberali e la libertà di costumi di quel milieu internazionale. C’era anche da divertirsi perché il maestro non si sottraeva alla buona compagnia, alle gite in automobile nel contado, persino a prestare il suo aiuto alla creazione della banda del paese. 

 

Tutto finì improvvisamente e tragicamente in una notte della tarda estate 1935, quando il medico fu barbaramente e misteriosamente assassinato mentre percorreva il breve tragitto dal laboratorio a casa, entro le alte mura della villa. Dall’oscuro omicidio prende l’avvio “Il complotto Toscanini”. “Un urlo rompe il silenzio… Luci, lumi, candele si moltiplicano contro la notte dietro alle finestre, sui balconi e davanti agli usci.

 

Il direttore soffriva di una nevralgia invalidante a una spalla. La cura Rinaldi funzionò. Altre celebrità arrivarono a Piazze

 

Di casa in casa la pietra rosata dei muri riflette bagliori per i vicoli, su fino alla chiesa e al monumento ai caduti. Un brulichio indistinto di ombre rincorre le voci che si sovrappongono in parole smozzicate, respiri affannati e pianti di bambini”. L’urlo che risvegliò tutto il paese sbalzando fuori dal letto gli uomini che si vestirono in fretta, accendendo i lumi a petrolio, era quello del povero dottore, colpito alla nuca e ucciso da un oggetto contundente. Come in un piano sequenza la prima scena del romanzo si chiude sulla strada, di fronte alla villa: “Sul lato opposto, il maestro Arturo Toscanini osserva. Indossa ancora l’abito scuro della cena. Il lampione accende il riflesso dei lunghi capelli bianchi, il volto di cera”. Lo choc è documentato nell’epistolario di Toscanini, il musicista telegrafa all’amica Ada Mainardi: “Dai giornali avrai saputo del barbaro assassinio amatissimo mio dottor Rinaldi sono esterrefatto rimango funerali”. 

 

Dopo il prologo, il romanzo fa un salto di quattordici anni, nell’Italia liberata, quando al Quirinale si stanno vagliando le candidature a senatore a vita per il primo Parlamento repubblicano. La scelta del presidente Einaudi, che guida i primi passi della Repubblica, è delicatissima e deve cadere su figure emblematiche e senza macchia. Toscanini, celebre nel mondo per la magia della sua musica ma anche limpidamente antifascista – si era rifiutato di far suonare l’inno mussoliniano “Giovinezza”, a malincuore non aveva più diretto a Bayreuth l’amato Wagner, per non dare copertura alle simpatie hitleriane della signora Winifred – era un candidato perfetto. Toscanini, suocero del pianista ebreo Horowitz, che definiva se stesso “ebreo onorario” e aveva inaugurato nel 1936 in Palestina quella che è poi divenuta l’Orchestra filarmonica d’Israele. Candidatura perfetta, eppure un’ombra si allungava sulla sua vita da quella notte di fine settembre 1935. 

 

Il cold case del delitto Rinaldi viene affidato al colonnello Luigi Mari, un uomo abbastanza giovane, sui 45 anni, ma già congedato dall’esercito per causa di servizio, le ferite riportate in uno scontro a fuoco con le forze di occupazione nazista nella Roma del 1944. Mari è sofferente per le plurime operazioni subite, per la rigidità della gamba offesa che gli procura ancora dolore, ma anche impaziente per la forzata inattività fisica e, soprattutto, mentale. Uomo d’azione e dalla mente brillante, non lo confessa ma sente nostalgia del lavoro di intelligence che lo aveva portato, durante la guerra, in Albania e a Berlino, nel 1942, dove era riuscito a entrare in contatto, come ufficiale dell’esercito italiano, con l’Oss, i servizi di controspionaggio militare Usa e con gli ufficiali tedeschi che tentarono il colpo contro Hitler. Cammina poggiandosi a un bastone (ornato da una testa di elefante in avorio, dono del fratello di ritorno dalle campagne d’Africa). 

 

Nel 1935 il processo Rinaldi, contro tre mugnai, due fratelli e l’anziano padre, era stato molto seguito dalla stampa di regime e si era concluso con la condanna del solo vecchio capofamiglia. Nonostante la sentenza passata in giudicato, qualcosa non quadra. Non regge il movente economico, il mugnaio avrebbe agito a seguito di rovesci economici che avevano portato la famiglia a indebitarsi con lo stesso dottore. Ma cosa potevano significare per il medico filantropo alcune migliaia di lire di un credito non riscosso? Di contro emerge sempre più la fitta relazione fra il medico e il musicista, molto più intensa di quanto non si spieghi con le sedute di terapia. D’altra parte, l’investigatore non può non scandagliare la passione per le donne di Arturo Toscanini e il suo carattere irruento, che più volte lo aveva portato ad azioni di cui aveva dovuto amaramente pentirsi, come quando aveva rischiato di far perdere un occhio a un violinista di cui aveva spezzato l’archetto durante le prove. Possibile che, nonostante le apparenze, vi fosse motivo d’odio fra i due? Cherchez la femme, secondo l’immortale suggerimento dato al capitano Bellodi nel Giorno della civetta? Oppure – si chiede il colonnello Mari – è altrove che bisogna cercare la chiave dell’omicidio ed è possibile che c’entri qualcosa quella misteriosa terapia che nessuno, dopo la morte di Rinaldi, è più riuscito a mettere in pratica? 

 

I biografi di Toscanini accennano all’ipotesi del delitto di regime, per l’aperto antifascismo del medico. Scrive Piero Melograni: “Quel medico doveva essere una persona molto dotata e piena di fascino, con il quale Toscanini si trovò in piena consonanza di idee politiche” (Toscanini, la vita, le passioni, la musica, Mondadori). Ma non vanno più a fondo. Perché il regime – si chiede l’investigatore – nel 1935, avrebbe dovuto interessarsi di un medico di provincia, sia pur celebre e in odore di eresia, sino al punto di ordirne l’uccisione? 

L’ipotesi (avanzata anche dai biografi di Toscanini) del delitto di regime, i dubbi dell’investigatore nel romanzo di Filippo Iannarone

Il colonnello Mari scava negli atti del processo, cerca i testimoni ancora vivi dell’epoca, e sempre più sprofonda in un rebus di cui è molto arduo trovare la soluzione a tanta distanza di tempo. Allarga lo sguardo all’anno, all’aggressione all’Etiopia che produce, insieme alle preoccupazioni per l’isolamento internazionale, il primo incrinarsi dell’adesione al fascismo. Non staremo a fare spoiler ma si può anticipare che la conclusione dell’indagine riserva sorprese di grande interesse e verosimiglianza anche per quel che riguarda Arturo Toscanini.

 

Il personaggio di Luigi Mari, che aspira anche in futuro, negli intenti dello scrittore, a diventare un detective letterario dei fatti oscuri che costellano i primi anni dell’Italia repubblicana, trae linfa vitale, racconta Filippo Iannarone, da una persona realmente esistita, lo zio dell’autore, Michele Iannarone, che operò nel controspionaggio militare italiano, e fu uno dei militari che partecipò al Fronte militare clandestino, sotto il comando di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Questo sfondo storico degli anni immediatamente successivi alla guerra e, nei flashback, degli anni stessi della Resistenza romana, non è l’ultimo fra i motivi d’interesse del romanzo, poiché illumina il sentire e le azioni della lotta ai nazifascisti fatta dai vertici militari fedeli al re, aristocratici, grandi borghesi e funzionari apicali dello Stato, sui quali non molto si è scritto e studiato, dei loro contatti e delle loro diffidenze verso gli altri comparti della Resistenza, in particolare dei comunisti. Nella lettura del romanzo, che è opera prima, pesa una certa pedanteria, ma i motivi d’interesse sono tali da superare i difetti: viene fuori il ritratto di una classe dirigente, avvocati, notai, prefetti, formatasi nella costruzione dell’Italia unita e della capitale, conservatrice, talvolta monarchica ma non antirepubblicana, in omaggio alla retorica risorgimentale che tiene insieme i Savoia e Mazzini, Cavour e Garibaldi. Così, è raccontato l’episodio, il 2 giugno 1949, dell’inaugurazione del monumento a Mazzini, progettato negli anni Venti dallo scultore Ettore Ferrari ma che Mussolini, che “aveva in odio i massoni”, non aveva voluto. Ancora oggi, a ridosso delle mura Aureliane, resiste integro – non si sa per quanto – l’atelier che lo scultore Ferrari ebbe in concessione dal sindaco Nathan, in quell’angolo magico di Porta Salaria dove, da via Piave, le auto si immettono su Corso d’Italia. Nel romanzo c’è il ritratto di Roma quando l’abitato finiva a Ponte Milvio e La Storta, teatro dell’eccidio del 4 giugno 1944, era un borgo di campagna famoso per la chiesetta in cui aveva fatto sosta Ignazio di Loyola in pellegrinaggio verso San Pietro, che lì meditando si era determinato a creare l’ordine dei gesuiti. 

 

Emerge il ritratto di una classe dirigente conservatrice, ma non antirepubblicana. Nei flashback, gli anni della Resistenza romana

In questa Roma, ai caffè di via Veneto siedono ancora i romani e c’è ancora il poeta Cardarelli, su cui si scherzava definendolo “il più grande poeta morente”. I protagonisti del racconto abitano nel quartiere Ludovisi, in palazzi resi solenni e un po’ sussiegosi dal barocchetto in voga nei primi anni della costruzione della capitale. Interiors in cui ogni oggetto ha un nome proprio, il tappeto è di Hereké, la radio è Marelli, “il più recente gioiello della tecnica italiana”, l’orologio da tasca in oro è La Renommée, qualcuno porta ancora la cravatta a plastron, il cappello estivo è rigorosamente un panama Cuenca a tesa larga. Le signore si emozionano per la visita della principessa Margareth, indossano capeline e fili di perle, vanno all’atelier per rimodernare l’abito da ricevimento. Un mondo nel quale si combina la frivolezza della libertà ritrovata con la serietà del lavoro e con eroismi non sbandierati, come nel caso della signora Iolanda, che nel suo atelier aveva nascosto, sotto i rotoli delle stoffe il militare ferito dai tedeschi e se ne era innamorata. Per lei l’omaggio della rappresentazione al Costanzi del Fidelio, nel maggio del 1949. Un piccolo falso storico che serve alla narrazione.