Donald Trump (foto LaPresse)

Dove nasce la post-verità

Giovanni Maddalena e Guido Gili

Indagine sulla svolta culturale che ha trasformato le bufale in problema ingovernabile

[Pubblichiamo in anteprima alcuni stralci del libro di Giovanni Maddalena e Guido Gili, “Chi ha paura della post-verità? Effetti collaterali di una parabola culturale”, in uscita per Marietti (115 pagine, 12 euro). Il saggio affronta uno dei temi più dibattuti degli ultimi mesi, quello delle fake news e della post-verità, e ha il raro pregio di riuscire a farlo senza moralismi né catastrofismi].

 


 

Perché processi che affondano le loro radici in un passato più o meno remoto, e che sono stati preparati, accompagnati e legittimati da complessi movimenti intellettuali e culturali, suscitano oggi tanta attenzione e allarme fino a generare il neologismo post-verità? Crediamo che ciò sia accaduto perché si sono prodotti dei “contraccolpi”, degli effetti solo in parte previsti e auspicati, che hanno inferto a questi processi una “svolta” per cui essi appaiono ora sempre meno governabili.

 

1. Gli attori imprevisti

Negli ultimi decenni, vari studi nell’ambito della psicologia sociale e della microsociologia hanno mostrato che la manipolazione è una dimensione costitutiva delle relazioni interpersonali e sociali. In sociologia, la conoscenza delle strategie comunicative che ognuno di noi mette in atto nelle relazioni faccia a faccia si deve principalmente all’opera di Goffman, il quale ha analizzato efficacemente le “mosse” e le tecniche con le quali tentiamo, in modo più o meno consapevole, di gestire, controllare, in una parola, manipolare le impressioni che suscitiamo negli altri, volgendo a nostro vantaggio le diverse situazioni di interazione nelle quali siamo coinvolti. Quindi nella vita quotidiana tutti potenzialmente manipolano tutti. Tutti siamo soggetti e oggetti di processi manipolatori.

 

I media costituiscono un caso particolare di concentrazione del potere (attivo) di manipolare le opinioni, le credenze e le emozioni del pubblico, per cui, citando Luhmann, essi non riescono mai del tutto a scrollarsi di dosso il “sospetto sui motivi” della loro azione comunicativa. Tale azione “cela” e persegue sempre un interesse ulteriore, sia esso di tipo politico o commerciale, di sostegno a opzioni ideologiche, di mobilitazione sociale o di difesa dello status quo. Il sospetto della manipolazione resta dunque l’ineliminabile “peccato originale” dei mass media.

 

I sistemi democratici e pluralisti hanno però definito dei meccanismi di controllo per cui il potere manipolativo dei media dovrebbe risultare meno pericoloso perché sottoposto a un sistema di regole esterno (le leggi e la concorrenza di altri media) e interno (i codici deontologici e le regole della professione). Le regole del pluralismo limiterebbero e controllerebbero dunque il potere di manipolare dei grandi media.

 

La comunicazione, ma anche
la manipolazione, è diventata pratica di massa: tutti possono manipolare ed essere manipolati

In un tale contesto i diversi media rifletterebbero le differenze della società; offrirebbero un accesso a diversi soggetti sociali e ai loro punti di vista; riporterebbero avvenimenti e problematiche sociali in modo non uniforme, ma secondo una varietà di prospettive e con diverse accentuazioni. Il sistema sarebbe anche in grado di correggere eventuali distorsioni e manipolazioni prodotte da singoli media, dal momento che i fatti non possono essere taciuti a lungo o deformati in modo sfacciato. Altre voci si leveranno infatti a esprimere posizioni diverse o a riprendere e correggere notizie censurate o manipolate. Naturalmente […] questo quadro ideale presenta molte eccezioni e incidenti, spesso teoricamente giustificati dai medesimi attori della comunicazione.

Tale quadro, tutto sommato normalizzato e metabolizzato – eccezioni e incidenti inclusi – è oggi però sfidato da due fenomeni nuovi.

 

Il primo è l’irruzione sulla scena pubblica e comunicativa internazionale di una serie di nuovi attori imprevisti e sgraditi. L’allarme è legato al fatto che delle tecniche e pratiche manipolatorie ad alto potenziale si sono appropriati soggetti “non autorizzati” secondo la prospettiva liberale e progressista: Trump, i sostenitori della Brexit, i leader antieuropeisti, Putin e i propagandisti dell’Isis. Questi nuovi attori della scena politica e mediatica hanno mostrato di sapere usare i media altrettanto bene, se non meglio, dei soggetti fino ad oggi (auto)legittimati a farlo, cioè i partiti tradizionali, le grandi agenzie di stampa, i grandi media e i “padroni” di Internet, sovvertendo logiche e gerarchie consolidate.

 

In secondo luogo, e più in generale, si sono determinati dei forti processi di disintermediazione nel campo comunicativo. Dal punto di vista sociale e politico è emersa in vasti strati della popolazione dei paesi occidentali (e non solo) una diffusa esigenza di partecipazione e protagonismo che ha scavalcato le forze politiche tradizionali, anche avvalendosi dei nuovi media creati dalla rivoluzione digitale. Internet ha offerto potenzialmente a tutti gli utenti – organizzati e disorganizzati, buoni e cattivi, presentabili o impresentabili – la possibilità di operare con le stesse strategie e gli stessi strumenti un tempo riservati ai media mainstream. Di diventare cioè emittenti, opinion leader, influencer di cerchie di destinatari più o meno estese, per cui la comunicazione, ma anche la manipolazione, è diventata una pratica di massa: tutti possono manipolare ed essere manipolati, dai soggetti più naives e improvvisati a quelli più organizzati e professionali.

 

In questo contesto è emersa una nuova paura delle folle e delle masse mediatizzate che trovano nuove forme di organizzazione e di azione online e offline, e che non di rado presentano un carattere anarcoide e antagonista rispetto alle istituzioni politiche e ai partiti tradizionali, per cui si è parlato di “sfere pubbliche irritative”. In secondo luogo, allorché tutti possono produrre, commentare, redistribuire, modificare, alterare, falsificare le notizie si è posta sempre più insistentemente la questione della “fine del giornalismo” come funzione sociale specializzata, anche se le risposte che sono state date finora per rilanciarne il ruolo – il plus di professionalità, la verifica delle fonti, la capacità di interpretazione e approfondimento dei fatti – appaiono in realtà piuttosto deboli e provvisorie, versando il mondo del giornalismo in una grave situazione di perdita di credibilità e di status, che non è certo solo riconducibile ai cambiamenti portati dalle nuove tecnologie comunicative, come sostengono alcuni, aggrappandosi a un debole e poco difendibile determinismo tecnologico.

 

2. Il senso di una disillusione

Un altro effetto inaspettato riguarda l’appannamento, se non una vera e propria smentita, di una visione ideale, che ha mosso sovente i professionisti dei media e, più in generale, i fautori di visioni progressiste e ottimistiche della comunicazione mediatica. Queste visioni presentano due declinazioni principali.

 

La prima concepisce i media come grandi agenzie educative sui generis, capaci di diffondere tra le persone visioni più mature, equilibrate e razionali della realtà. E’ l’idea dei media come “soggetti educativi” della società, strumenti per elevare e rendere più consapevole il pubblico, che ha accomunato tanti autori e si è riproposta in modo particolare dopo i periodi di crisi, come le Guerre mondiali e la Guerra fredda, e che oggi si esprime nella convinzione che Internet ci renda “più intelligenti”.

La seconda è l’idea dei media come “traduttori”, cioè come luoghi in cui diverse opinioni, credenze, visioni del mondo si incontrano, dialogano, si contaminano tra loro, così da costituire la base e la condizione di possibilità di una “sfera pubblica” democratica e pluralistica.

 

Il concetto di verità si riaffaccia nei discorsi e nelle relazioni sociali. Esprime un'esigenza e un'evidenza fondamentale della vita

Queste due visioni trovano una sintesi esemplare nell’idea di Habermas secondo cui i media, che “canalizzano unilateralmente flussi di comunicazione in una rete centralizzata, dal centro alla periferia o dall’alto verso il basso” e quindi “possono rafforzare notevolmente l’efficacia dei controlli sociali”, incorporano al tempo stesso “il contrappeso di un potenziale emancipativo” poiché “staccano i processi di comunicazione dal provincialismo di contesti limitati in senso spazio-temporale e fanno sorgere sfere pubbliche, in quanto istituiscono la contemporaneità astratta di una rete virtualmente sempre presente di contenuti comunicativi […] e mantengono disponibili messaggi moltiplicati”.

 

Quindi, nonostante i media detengano indubbiamente un potere simbolico e performativo che mettono a disposizione di chi li usa e li controlla, per le loro stesse caratteristiche contengono anche un potenziale di creazione di nuovi significati e di contagio di idee che “eccede” sempre i progetti di chi pensa di usarli esclusivamente per i propri fini particolaristici. Essi sfuggono sempre – almeno in parte – al controllo di chi li maneggia. Naturalmente, come si è già detto al punto precedente, questo potenziale emancipativo può dispiegarsi nel modo migliore nei contesti in cui il potere dei media e di chi li controlla è contenuto e limitato da un sistema di regole, che trova il suo garante nelle istituzioni pubbliche democratiche ed è accettato da tutti gli attori.

 

Questa idea progressista del potenziale emancipativo dei media si è trovata però a dover fare i conti non solo con i sempre rinnovati tentativi dei “poteri forti” di controllare il mondo della comunicazione e asservirlo ai propri scopi di egemonia sociale, ma anche con comportamenti dei destinatari che sembravano smentirne le aspettative ed eroderne le stesse basi. Da quasi ottant’anni le ricerche sugli usi e gli effetti dei media, da Lazarsfeld e Hovland in poi, hanno messo in luce che il loro potere di influenza – sia in senso positivo sia in senso negativo – trova un forte ostacolo nella tendenza delle persone ad esporsi di preferenza a emittenti e messaggi che esse considerano più compatibili con la propria visione dell’io e del mondo sociale. In tal senso l’esposizione ai media agisce più nel senso di confermare le opinioni, le credenze e le visioni del mondo consolidate nei destinatari, che di metterle in discussione e di confrontarle con quelle di altri. E molti media, va aggiunto, si adattano volentieri a questo gioco, costituendo lo specchio in cui il loro pubblico si riflette in un legame di doppia autoreferenzialità.

 

Come si è visto nella delusa confessione del co-fondatore di Twitter, Internet, con il suo mito della “piazza digitale”, aveva riacceso molte speranze, dal momento che grazie all’uso di media interattivi e partecipativi i suoi utilizzatori possono aprirsi ai più diversi rapporti e allargare, almeno potenzialmente, il loro ambiente di vita e di relazioni. Anche questa visione ideale si è dovuta però scontrare con una realtà che andava in direzione diversa. Come hanno mostrato numerose ricerche a livello internazionale, le comunità relazionali che si creano in rete e nei social media, per quanto potenzialmente illimitate, di fatto si costituiscono spesso secondo un principio di autoselezione e coinvolgono quasi sempre persone che già si conoscono e sono in rapporto tra loro. La rivoluzione digitale, soprattutto con l’avvento dei social media, invece di rompere il circolo dell’omofilia, cioè dell’incontro e del riconoscimento tra simili, per certi aspetti può estenderlo e rafforzarlo. Alcuni ricercatori, come sappiamo, parlano anche di “cassa di risonanza” (echo chamber) e di “bolla filtro” (filter bubble) per indicare un effetto sociale inatteso, favorito dai meccanismi di ricerca personalizzata di informazioni e contenuti su motori di ricerca, siti e social network, che apprendono dal precedente comportamento degli utenti e ripropongono loro ciò che è più familiare e consonante, limitando l’apertura e la curiosità verso ciò che è diverso e dissonante. Questo effetto composto, prodotto da innumerevoli comportamenti individuali senza essere consapevolmente perseguito da nessuno (almeno tra gli utenti), rischia anche di mettere fuorigioco quei media democratici che cercano di promuovere il dialogo e l’incontro tra diversi, favorendo il decentramento e la comprensione dell’alterità dell’altro. Così appare eccessivamente ottimistica l’idea espressa nella recente lettera di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, che, resosi conto del potenziale di frammentazione sociale della sua creatura, intende promuovere il tentativo di concepire i social media come artefici e registi di un consenso che “smussa” le differenze e le opposizioni senza però affrontare alla radice le ragioni del loro permanere e incrementarsi.

 

3. Le rinnovate pretese della verità

Il concetto di verità è duro a morire, e si riaffaccia sempre nei discorsi e nelle relazioni sociali. Esso esprime infatti un’esigenza e un’evidenza fondamentale della vita umana. Nonostante gli scetticismi e le disillusioni presenti fin dall’epoca dei sofisti, il bisogno della verità torna sempre a ripresentarsi in nuove e tenaci forme e modalità. Nella vita di tutti i giorni le persone si chiedono continuamente l’un l’altra: “mi stai dicendo la verità?” o “le cose stanno proprio così?”. Non è un caso che nelle sue massime conversazionali, che definiscono i requisiti fondamentali per la cooperazione comunicativa, Grice inserisca la massima della qualità, che recita: “non dire ciò che credi essere falso” e “non dire ciò di cui non hai prove adeguate”. Naturalmente Grice sapeva benissimo, e noi con lui, che esistono infiniti modi per contravvenire questa regola e la sua violazione consapevole e inconsapevole è la norma più che l’eccezione. Nondimeno essa è un punto di riferimento senza il quale non vi sarebbe comunicazione.

 

La credibilità – basata sul “dire la verità” – è la condizione intrinseca di ogni relazione comunicativa. Nessuna relazione sarebbe infatti possibile senza l’apertura di credito per cui attribuiamo all’altro la capacità di parlare sensatamente e di dire il vero. Anche il fraintendimento non voluto o la menzogna voluta sono necessariamente preceduti “da qualcosa che assomiglia ad un ‘accordo’, che ne è il supporto”. Ciò non vale solo nelle relazioni quotidiane; anche la credibilità del politico, ad esempio, si basa largamente sul fatto che dica la verità e tantissima buona e cattiva retorica della politica fa appello a questo concetto e a quello contiguo di sincerità. Anche la credibilità del giornalismo e del mondo dell’informazione è legata al fatto di dire la verità e “scoprire” la verità.

Di fronte al fenomeno montante della post-verità, di cui abbiamo cercato di ricostruire le molteplici radici, traiettorie e manifestazioni, quali sono le strategie di resistenza e di contrasto che sono state proposte in questo ultimo periodo?