Sandro Penna con Pier Paolo Pasolini

"Poesie, prose e diari" del più diretto e scandaloso del 900

Alfonso Berardinelli

Sandro Penna è un poeta più letto che studiato, e questa è una fortuna

Il più esplicito, diretto, leggibile, scandaloso e inflessibilmente fedele a se stesso dei poeti italiani del Novecento, Sandro Penna, ora è possibile leggerlo in lungo e in largo, dalle primissime alle ultime cose che ha scritto, cioè dal 1922 al 1976, nel volume “Poesie, prose e diari”, uscito ora nei Meridiani Mondadori a cura e con un saggio introduttivo di Roberto Deidier, cronologia documentatissima di Elio Pecora.

  

In un breve articolo come questo, più che recensire il volume di 1.420 pagine, l’introduzione di ottanta pagine, la cronologia biografica di più di cinquanta, le fittissime note e gli apparati bibliografici, la sola cosa che posso fare è prendermi e dare al lettore il veloce piacere di leggere Penna sfogliando qua e là. Questa stessa edizione incoraggia subito un tale uso perché offre per prima cosa l’autoantologia che Penna pubblicò da Garzanti nel 1973 con il titolo “Poesie” e con la seguente avvertenza: “Queste sono le poesie che al di fuori di qualsiasi critico io stimo più di tutte. Sarebbero insomma quello che io lascerei ai posteri se i posteri esisteranno”.

  

Già, esisteranno i posteri? La lunghissima tradizione di continuità, memoria, fama desiderata e più o meno ottenuta, che almeno da Orazio in poi (“Exegi monumentum aere perennius”… ho eretto un monumento più durevole del bronzo e più alto delle piramidi…) è arrivata fino a ieri, sembra oggi messa in dubbio dalle molte attuali mutazioni. Oltre a Penna, anche Montale dubitò dei posteri. Nella maggioranza dei casi, narrativa e poesia sembrano ormai non avere elementi di continuità con il passato: questo almeno è il parere dei critici meno portati all’ottimismo.

 

E’ certo comunque che Penna resterà e sarà più letto che studiato (una singolare fortuna) benché della storia e della cultura non si sia mai, lui, particolarmente interessato. La potente vitalità e l’apparente precarietà dei suoi versi sembra che non abbiano mai bisogno di garanzie, autorizzazioni, consacrazioni ufficiali e pubbliche, e neppure delle giustificazioni interpretative che possono dare i critici. La leggibilità di Penna nasce dalla pura certezza, magari momentanea, che il presente è tutto e che tutto deve semplicemente avvenire nel rapporto immediato tra i versi scritti e chi li sta leggendo. Versi scritti che suonano sempre come parlati, detti, vocali.

  

Una strofa dice: “Basta all’amore degli adolescenti / sentirsi possedere / dal sole entro la sabbia calda immoti”. Detto questo, che altro si può dire? Pur essendo formalmente, linguisticamente il contrario di ogni avanguardia, le poesie di Penna nascono nel vuoto, limitandosi a sfruttare in modo sfacciatamente sbrigativo la tradizione letteraria per quel poco che serve, ma usandola con estrema perizia tecnica, verticalizzando sul qui e ora ogni singolo atto e gesto poetico: “Sole senz’ombra su virili corpi / abbandonati. Tace ogni virtù”. In questa spoglia e semplice lode della vita immediata regna un evidente nichilismo: ogni cosa è o diventa reale, più reale, se prima e dopo non c’è niente, o tutto il resto viene dimenticato: “Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo”. Naturalmente, lì dove c’è gioia piena incombe, subito dopo, la malinconia: “Mi nasconda la notte e il dolce vento. / Da casa mia cacciato e a te venuto / mio romantico amico fiume lento. // Guardo il cielo e le nuvole e le luci / degli uomini laggiù così lontani / sempre da me. Ed io non so chi voglio / amare ormai se non il mio dolore”. E ancora: “Piove sulla città. Piove sul campo / ove incontrai, nel sole, il lieto amico”.

  

Un poeta greco antico? Un poeta taoista cinese? Penna dice la prima o l’ultima cosa che si può e si deve dire: “Eccoli gli operai sul prato verde / a mangiare: non sono forse belli? / Corrono le automobili d’intorno, / passan le genti piene di giornali. // Ma gli operai non sono forse belli?”. Per commentare questi cinque versi si potrebbe scrivere un saggio, oppure niente. L’associazione è fra operai, prato verde, mangiare, essere belli. Tanto per echeggiare appena la letteratura, si dice “d’intorno”, si dice “le genti”. E tutto ciò che è estraneo agli operai sono le automobili e i giornali. Ma gli operai dei tempi di Penna avrebbero presto amato molto le automobili e leggevano accanitamente i giornali. Che cosa amava in loro Penna? Certo anche se stesso. E il fatto che per gli operai essere belli contava molto di più che per i borghesi, era la sola felicità possibile.

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