L'utile riscoperta dei Quaderni Piacentini

Matteo Marchesini

Difetti evidenti, ma nel 2017 hanno ancora i loro argomenti per scandalizzare i lettori

Chi ha meno di quarant’anni, e guarda alle vicende politico-culturali che accompagnarono la metamorfosi dell’Italia tra il Boom e il delitto Moro, spesso ha in mente un panorama semplificato: pochi nomi dalle identità ridotte a maschere. Se pensa ai letterati, vede uno scontro fumettistico tra pasoliniani e neoavanguardisti, con Calvino che sguscia via aggiornato e reticente. Se immagina lo sfondo ideologico della vita intellettuale, accanto al Pci gli appaiono gruppi extraparlamentari di cui ricorda le figure che hanno mantenuto un’aura di operaismo accademico. Entrambe le prospettive escludono la rivista più attendibile della nuova sinistra, quei “Quaderni Piacentini” (1962-1980) di cui oggi Giacomo Pontremoli ci offre una documentatissima storia stampata dalle Edizioni dell’Asino. I Piacentini, per dirla con una battuta, non stavano né con Pasolini né con Sanguineti, né con Negri né con Berlinguer (né col Manifesto); ed erano critici anche coi compagni della più libertaria Lotta Continua.

 

Inaugurata a Piacenza da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, giovani di ottima borghesia affamati di libri e film, la rivista si vaccina subito contro l’estremismo estetizzante, le intimidazioni universitarie e le mistificazioni populiste: come padre nobile, infatti, sceglie Fortini, durissimo con gli intellettuali che fingono di poter parlare a nome della collettività attraverso i media di massa, e pronto a denunciare, nell’apparente anarchia del ’68, la nascita di un’autorità “più cieca” perché “non avvertita come tale” nei rapporti tra militanti e leader. A Cherchi e Bellocchio, via Panzieri, si aggiunge poi Fofi, la cui inchiesta sull’immigrazione meridionale a Torino ha spaccato nel ’63 l’Einaudi; e dallo stesso ambiente vicino ai Quaderni rossi arriva la sinologa Masi, che in quegli anni di crisi internazionali, tra suggestioni di Mao, Fanon e Black Power, apre la rivista al mondo insieme a Renato Solmi, autore di un saggio magistrale sui movimenti americani appena ripubblicato da Quodlibet. A poco a poco, intorno ai giovani si forma una squadra di formidabili dioscuri: Fortini e il suo “contraltare diurno” Cases, per la psicologia il razionale Jervis e l’estroso Fachinelli, per i contributi politico-sociali Ciafaloni e Stame, per la letteratura Giudici e Raboni. Fofi si esibisce nei suoi affondi sul cinema, e Bellocchio spazia tra arti, costume, critica dell’ideologia, senza trascurare gli aspetti dell’esistenza irriducibili ai progetti rivoluzionari (la malattia, l’eros, la morte…). La distanza da una politica ormai balcanizzata aumenta negli anni 70, quando entra nel direttivo Berardinelli; finché all’inizio del decennio successivo, dopo una dolorosa riflessione sul terrorismo, Bellocchio chiude un’impresa che sente ormai estranea.

 

I difetti dei Piacentini sono fin troppo evidenti: su tutti, il dito sempre puntato di chi si crede il giustiziere della Storia; ma rispetto a esperienze limitrofe, colpisce piuttosto la loro capacità di bilanciare questa presuntuosa impazienza con continui dubbi “dialettici”. Nel 2017, a scandalizzare di più i lettori saranno forse le stroncature di opere divenute nel frattempo monumenti. Ma al di là dei casi singoli, su una cosa quei giustizieri avevano ragione: l’industria culturale stava dissolvendo la più legittima e complessa cultura novecentesca. Quando si dispersero, il loro linguaggio era già quasi incomprensibile: la Storia andava altrove. Che fare? Passare dal noi all’io, come Bellocchio e Berardinelli, o come Fofi e Cherchi seguire la nuova narrativa immemore e i nuovi politici della cultura, per non condannarsi a un antagonismo invisibile? Entrambe le scelte hanno pregi e prezzi. In particolare, la politica della cultura rischia di tradire sia la politica sia la cultura, se per esprimersi deve dimenticare che la falsa coscienza denunciata dai Piacentini è cresciuta oltre ogni previsione: valeva la pena, per dire, bastonare i maggiori artisti del secondo 900 per poi promuovere Benni, Baricco, e gli attuali pubblicitari dell’engagement? Oggi minimum fax ripropone gli articoli della Cherchi editor e giornalista, indiscriminatamente apprezzata da chi non ne vede il rapporto ambiguo con la fase precedente. Eppure i suoi passi migliori – gli scorci autobiografici e i ritratti di maestri, le perplessità su Tabucchi e la stroncatura di Cipolla, che in “Allegro ma non troppo” si crede spiritosamente anglosassone mentre è goliardicamente italiano – i suoi passi migliori vengono ancora dalla vecchia Piacenza. Un posto dove conviene sempre tornare.

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