La mostra di Keith Haring a Palazzo Reale, Milano (foto LaPresse)

Consumare belle arti per acquisire un tono. Parla Scaraffia

Rubina Mendola

Code ai musei e loft pieni di libri mai letti. Così trionfa il feticismo culturale

Le code davanti ai musei non confortano, perché le file ci sono anche davanti ai punti Snai e ai concerti. Nell’apogeo dell’arbasiniana “società dei topi”, tutti sono sostituibili e indistinguibili: specialmente gli intellettuali e insieme a loro i fruitori belligeranti e neurotici di eventi. Musei: 2016 da record. I numeri delle presenze: “Aumento pari a 6 milioni di visitatori in tre anni” (perché l’arte redime tutto, è la sola santa degli impossibili nel nostro tempo, scriveva Arbasino). Se a Parigi l’allarme attentati ha fiaccato persino il Louvre, in calo del 15 per cento, in Italia i musei festeggiano con 44,5 milioni di visitatori e incassi da 172 milioni di euro. Ha vinto il modello italiano del museo diffuso. Il ministro Franceschini, gaudente: “Per l’Italia è il terzo anno consecutivo di crescita, siamo passati dai 38 milioni di biglietti del 2013 ai 44,5 del 2016, 6 in più in un triennio”. Il billboard dei beni culturali dice che il Colosseo rimane al top di visite (6.408.952), seguito da Pompei (3.283.740) e Uffizi (2.010.631).

 

Eppure non è la quantità che conta, ma la qualità. Cosa si nasconde dietro la mistica museale? Intervistando lo scrittore Giuseppe Scaraffia per interpretare la statistica, si ottengono risposte preziose che non sfoderano il buonsenso comune. Lo straboom dei musei è il clou della cultura di massa? La cultura di massa, dice, purtroppo non esiste, come non esiste l’alpinismo di massa e tutto ciò che richiede uno sforzo di apprendimento. Molto spesso si sente parlare di livello alto dell’offerta culturale, come fosse un panino al prosciutto, ma nessuno sembra interrogarsi sulla qualità del fruitore e se lui è davvero all’altezza del “prodotto” che consuma. Le folle di ciechi che percorrono musei ed esposizioni, continua Scaraffia, “ci ricordano che quadri e romanzi restano – come diceva Stendhal – uno specchio in cui si può riflettere solo la capacità visiva di chi guarda. Quindi non so cosa appaia alle masse che credono di ‘consumare’ cultura per farsi belli di fronte a se stessi e agli altri”.


Viviamo nell’epoca del feticismo culturale, ed è una novità storica assoluta: loft pieni di libri non letti e codazzi ai musei di persone che conoscono solo nominalmente l’artista. Qual è l’urgenza di questo autoinganno collettivo? “Ho notato che il tramonto del libro coincide con la sua ascesa come oggetto d’arredamento. D’altronde è tale la pressione della massificazione da indurre le folle ad adottare trucchi per acquisire un’illusione di identità individuale”. Quindi la cultura “per tutti” è realtà o solo il payoff consolatorio del secolo? La cultura è costitutivamente elitaria? E l’elitarismo sarebbe eventualmente colposo o virtuoso? La nostra epoca continua a ribadire che tutto è per tutti, che i dilettanti sono al livello degli artisti, che ogni traguardo può essere senza fatica. Il selfie ha sostituito il flash che il fotografo riservava alle celebrità. La massa senza qualità reclama il ruolo di protagonista e non si sa cosa potrebbe succedere se le venisse negata anche questa soddisfazione illusoria. E i media promuovono una falsa élite di personaggi scadenti venduti come geni. Sempre per non fare sentire alle masse che anche in questo campo, come in quello dei consumi, possono accedere solo a fallaci imitazioni.

 
Tra umanisti frustrati e terziario incallito si consuma la passeggiata al museo. Sovrappopolazione vuol dire più damerini a teatro e ai concerti, più studentame all’università, più visitatori alle mostre e decuplicazione di manifestazioni al chilo come nella formula all you can eat, continuando a esclamare “favoloso” e “capolavoro” per qualunque cosa. Eterodiretti che consumano belle arti solo per acquisire un minimo di tono, e sullo sfondo una fissa molto radical: il mito della funzione correttiva della cultura, come lo chiamava Hughes, l’idea che diventiamo ciò che leggiamo o osserviamo nei musei, il convincimento che l’arte sia terapeutica. E su questo dominio della piccola borghesia alfabetizzata del benessere e delle sue euforie per tutto ciò che è high si erano già espressi alcuni (Pasolini, Arbasino, Fofi).

Al giorno d’oggi non è più facile distinguere l’élite da quelli che si trovano in basso nella gerarchia sulla base di vecchi indicatori (come la presenza assidua a opere e concerti, l’entusiasmo per tutto ciò che è considerato highbrow in un momento determinato o l’abitudine di storcere il naso al lowbrow). Questo non significa che non esistono più soggetti che vengono considerati come élite culturale, persone informate sul comme il faut o comme il ne faut pas, però a differenza delle élite culturali di un recente passato, non si tratta di intenditori, di cultori reali. E’ giusto chiamarli (col termine di Richard A. Peterson) “onnivori”, o woolfiani clienti del middlebrow. Nel repertorio del loro consumo c’è spazio per l’opera quanto per le serie tv, o il punk, per le arti alte e per la tv popolare, per Mozart e per “Sex and The City”, per il cheap e la costosa boutique. Quali conseguenze ci saranno, etiche ed estetiche, nella prassi del “boccone di qua e un morso di là”? La cultura oggi in svendita non ha un volgo da elevare’ ma clienti da sedurre, e la sua funzione è soddisfare non bisogni esistenti, ma indotti. L’egemonia e sovrabbondanza di zombi mangia-musei genererà tanti nuovi e accaniti pundits, modificati geneticamente? Il tempo lo dirà.