La copertina del libro di Marina Valensise

Cuochi, architetti e artisti all'opera. Quando la cultura diventa impresa

Marianna Rizzini

Il nuovo libro di Marina Valensise (Marsilio)

Un Istituto di cultura italiana all’estero (in questo caso, a Parigi) come laboratorio di piccola magia, dove una stanza-antro da Barbablù, un magazzino pieno di scartoffie e un allestimento-luci da film dell’orrore possono diventare materia da alchimista e trasformarsi in creatura ibrida, esperimento di matrimonio pubblico-privato e trampolino per l’arte non più vista soltanto come monumentale testimonianza da museo. Marina Valensise ha diretto l’Istituto di cultura italiana a Parigi dal 2012 al 2016, e oggi racconta quei suoi anni in “La cultura è come la marmellata” (ed. Marsilio). Il titolo fa il verso alla massima sessantottina “la cultura è come la marmellata, meno ne hai, più la spalmi”, solo che qui è intesa “al contrario”: in Italia tutto è cultura, e ogni borgo può essere museo, ma tutta quest’abbondanza è spesso considerata come qualcosa che non ha bisogno di idee per essere valorizzata. Nulla di più falso, pensava Valensise prima di sbarcare, sul finire di un’estate caldissima, all’Hôtel de Galliffet, sede dell’Istituto che parla di rivoluzioni e controrivoluzioni, di Talleyrand e di dame leggendarie dei salotti (chi scrive, a lungo collega di Valensise al Foglio, non può fare a meno di immaginarsi la neo direttrice dell’Istituto, in quell’estate del 2012, mentre esamina soffitti, cantine e tappezzerie, agendina alla mano, in preda a un entusiasmo un po’ calvinista e un po’ mediterraneo: “Mai accettare un no come risposta”, non a caso, è una delle massime riportate da Valensise a inizio capitolo).

L’idea di fondo è che la divisione rigida in cultura da sostenere solo per via pubblica e arte da sovvenzionare solo per via privata sia obsoleta e che “rinnovare” e far conoscere il patrimonio artistico-culturale di un paese sia anche “impresa”. Motivo per cui Valensise, nei primi mesi di trasferta parigina, ha deciso di affidare a talenti del design, della cucina, dell’artigianato, della manifattura mobiliera la messa a nuovo delle sale polverose dell’Istituto, e di far convivere artisti-borsisti con eccellenze dell’industria, musicisti con cuochi, mecenati con maghi tecnici dell’allestimento scenografico, topi da biblioteca con proprietari di fabbriche del nord-est. Un investimento in cultura portava all’altro, come in una composizione di bambole russe in cui il valore è dato da tutte le matrioske insieme, dalla più piccola alla più grande. “Siete voi l’Istituto”, ha detto Valensise ai funzionari incontrati il primo giorno di lavoro all’Hôtel de Galliffet: i direttori passano, voi restate; non vi si chiederà l’impossibile ma il meglio che possiate fare. E mentre fuori la città ancora deserta da fine-vacanze d’agosto cominciava una giornata afosa e sonnolenta, nelle stanze dell’Istituto spuntava la bacchetta magica metaforica di chi, di fronte ai segni del tempo (e all’incuria), ma senza troppo spendere, deve capire come resuscitare i tesori sepolti sotto le pile di documenti, dietro alle stoffe consunte, tra i tavoli disposti a spina di pesce, dietro i maxischermi incongrui da partita dei Mondiali in mondovisione, al di là del vialetto d’uscita cui si doveva assolutamente togliere – pensava la neo direttrice – quell’aria triste, a costo di inventarsi una specie di percorso di poesie, luci e suoni, partendo dal “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi. E però Leopardi può convivere con il team di giovani architetti e con il corso di cucina che fanno da vetrina non immobile all’esportazione di prodotti italiani, e il mese passato dagli artisti ospiti può diventare occasione di ristrutturazione della sala mostre.

“Esperienza del fare”, così Valensise definisce i suoi anni all’Istituto, un’esperienza raccontata nel libro “con l’ambizione di servire”, scrive, “… da fonte di ispirazione per chiunque… operando in contesti analoghi o semplicemente affini, intenda contribuire, con i propri mezzi, al rilancio di un settore essenziale per la nostra vita civile” e per “suggerire un nuovo modo di entrare in relazione col mondo dell’industria, delle manifatture, del made in Italy, allo scopo non solo di offrire una vetrina istituzionale a tanti attori impegnati sul fronte dell’export, ma anche di generare, magari in modo imprevedibile, nuova ricchezza”. Sullo sfondo si muovono personaggi (indispensabili) da romanzo, dalla reggente-nonna silenziosamente operosa all’impiegata modello che sembra “una Madonna di Mattia Preti” all’anziano funzionario che indossa sandali con calzini di lana e strani copricapi da Rivoluzione russa. 

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.