Massimo Moratti (foto LaPresse)

Milano e i Moratti, doppia nostalgia

Maurizio Crippa
Riprendersi l’Inter oppure no. L’Ambrogino a Letizia che (forse) arriverà. San Patrignano e il buen retiro lontano. La politica e il referendum. La voglia sottile di tornare nella città orfana dell’ultima grande famiglia.

Milano. La villa di Imbersago sulle dolci rive dell’Adda, là dove l’Adda scorre nel suo tratto più dolce, è sempre lì, piccola Versailles borghese, reggia di famiglia dei grandi raduni. Ma profuma soprattutto di Angelo e di Inter, di Herrera e di giocatori che sgambettavano sul prato, delle chiacchiere intorno al biliardo alle feste comandate. Profuma più di sport e ricordi, cioè di Massimo. L’altro buen retiro sta sulle colline romagnole, tra vigne e buone opere concepite come artigianato, mobili e tessuti, e seconda opportunità per tanti giovani che vi hanno trovato casa. Non è una reggia, piuttosto una factory, la San Patrignano di Letizia e Gian Marco. Lontana dal negotium, è un santuario dell’otium, inteso come l’attività quando fa bene allo spirito. Loro ne sono i sostenitori principali, gli innamorati del progetto, qui sono a casa, ma non padroni. E lei, Lady Letizia, dalla collina guarda lontano, vuole far sì che la sua San Patrignano un giorno cammini da sola, non sia più così “sua”. Ritiri appartati, incredibilmente tranquilli, eppure così vicini ai luoghi simbolo di Milano, che sta sempre nel mezzo, a metà strada tra la via del lago e la via del mare. Coi suoi centri del potere, Palazzo Marino, e la piazza dei giochi del popolo, come nelle antiche signorie: lo stadio di San Siro.

 

Milano che ha cambiato padroni, quasi tutti, negli ultimi anni. Milano che un po’ si sente orfana della sua ultima famiglia reale – per quanto possa sentirsi orfano un libero comune, come ha sempre pensato di sé la città, che ci fossero gli Sforza o gli Asburgo – la famiglia più influente, engagé, più politicamente e socialmente trasversale della borghesia milanese del Dopoguerra. Estinti, o spariti, o musealizzati i Pirelli, i Falck, i Feltrinelli, sono rimasti solo i Moratti. E Milano inevitabilmente continua ad attrarli, i Moratti, come un sortilegio nelle nebbie d’autunno, quelle che calano intorno a San Siro. Ammaliano Massimo, of course, il Principe Ondivago. Gazzetta dello Sport, 7 settembre: “Tornare all’Inter? Non è questo il momento e non è nei miei programmi immediati, ma per il futuro certo. Potrebbe succedere”. Il 17 del mese seguente: “E’ un grande caos, non voglio entrarci”. Il 24: “La situazione sarà anche un po’ complicata, ma non sono certo io destinato a districarla”. Massimo che non è più il presidente, anzi ufficialmente non c’è quasi più, le quote diluite tra i figli, ma dietro la falce che la vigilia del “dì di Mort” ha reciso il fresco tulipano Frank De Boer si legge agevolmente anche il suo labiale. Così come dietro le frasi e le interviste dell’amico e socio di una vita, Marco Tronchetti Provera, si legge la suggestione di un ritorno. Massimo, e sua sorella Bedy, non possono stare senza l’Inter. (Gian Marco e la sua consorte Letizia, anche sì: soprattutto senza i debiti e quel miliardo di euro buttato in vent’anni nei colori della notte dal fratello presidente). Ma non c’è solo questo. Nei giri di buona borghesia e finanza meneghina, sull’Inter cinese (e persino sul Milan) c’è un po’ di sbuffo, un po’ d’insofferenza. Riprendersi il lustro, la bandiera, un po’ di milanesità internazionale. E allora, Moratti. L’eterno ritorno. Anche se, negli stessi salotti del Milàn di sciuri, Tronchetti Provera, manager dei due mondi – nonché a lungo principale, si diceva così una volta, di Beppe Sala – non spiacerebbe, al timone.

 

Però, i Moratti. Tra le grandi famiglie industriali del secolo scorso l’ultima rimasta. Eccezion fatta per Casa Berlusconi. Ma il Cavaliere non è mai stato re, a Milano. E’ stato imperatore. Vi è entrato, come Napoleone, l’ha ribaltata, dominata. Ma da subito ha posto la sua reggia lontano: Arcore, Brianza. Invece la famiglia Moratti è quella il cui destino è più intrecciato con la città pubblica. Per via della squadra, ovvio. Per via di Letizia, la moglie manager del figlio manager di Angelo. Che è stata sindaco, e presidente della Rai e ministro nell’epoca in cui il “vento del nord” soffiava forte. Che a Milano ha portato l’Expo – un regalo del marito, il marito che non dà mai interviste, si è sempre detto. A Letizia Brichetto Arnaboldi Moratti, oggi prima donna presidente del consiglio di gestione di una grande banca, Ubi, quest’anno potrebbero dare l’Ambrogino d’oro, che saltò per polemicuzze politiche tre anni fa. Ma quest’anno il sindaco è Beppe Sala, che fu il suo city manager, che fu un Tronchetti boy, che ha lasciato intendere la sua non contrarietà. Si decide a metà novembre. E sarebbe meritato (la motivazione è l’impegno sociale, San Patrignano, per stare alla larga dalla politica e il business). Sarebbe una gran pace simbolica – lei si schierò per Stefano Parisi, amico di lunghissima data. E sarebbe un risarcimento: Sala non sarebbe diventato Mr Expo, senza il lavoro di Letizia. E lei è riconoscente a Matteo Renzi, l’unico che si ricordò di ringraziarla, alla cerimonia d’apertura, e la Lady di ghiaccio si commosse. Poi c’è sempre Milly, la moglie di Massimo, lista civica al fianco di Beppe Sala, una vita battagliera in Consiglio comunale. Lei scienziata, ecologista, attivista in bicicletta, all’opposizione di Letizia quando era sindaco.

 

Perché i Moratti sono così, trasversali fino a sfiorare la rissosità famigliare. E a differenza di altre dinastie s’impiccia della città e l’ha sempre fatto, non può farne a meno. O forse non si rassegna a una centralità perduta. L’anno della svolta fu il 2013. Pochi mesi. In aprile i russi di Rosneft acquisiscono il 20 per cento della Saras Spa, petrolio di famiglia. A fine estate l’Inter viene venduta, con i suoi debiti e i lucciconi agli occhi, a un quasi sconosciuto magnate indonesiano, Erick Thohir. E il consiglio di amministrazione dell’accomandita di famiglia, la Angelo Moratti Sapa, approva la scissione in due società, possedute dai due fratelli. Sembra la fine di un regno, un ritirarsi in campagna. Ma i legami con la città restano. Con l’imprenditoria, la società che conta, la finanza, il calcio, la sottile passione bipartisan per la politica. Gian Marco, che era in prima fila in Assolombarda ad ascoltare il candidato Parisi, è un silenzioso sostenitore del centrodestra. Parisi o non Parisi, è probabile che voterà, silenziosamente, Sì, con Letizia. Milly, più rumorosamente, propende al No. Massimo chissà, ha più la testa nel pallone. Interprete massimo di una nostalgia reciproca, inconfessabile, tra la famiglia e la città.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"