Una campagna pubblicitaria della serie (Foto LaPresse)

Perché Westworld è l'immagine del nostro futuro

Gianmaria Tammaro
La serie (che esce in contemporanea con gli Stati Uniti su Sky Atlantic) creata e scritta da Johnatan Nolan e co-prodotta da JJ Abrams nasce dall’omonimo film del 1973, scritto e diretto dal romanziere Michael Crichton. E' un compendio di domande sul rapporto dell'uomo con le macchine, pieno di quesiti esistenziali.

E’ tempo di proclami: “Westworld è la serie tv dell’anno”. C’è chi prova a spiegarlo, ma nessuno dice perché. La tesi più gettonata è quella dell’accostamento, piuttosto banale, ai videogiochi. Non basta questo però a spiegarne il successo. In Westworld, serie tv co-creata da Jonathan Nolan, fratello di Christopher, e co-prodotta da JJ Abrams, mandata in onda da Hbo e ritrasmessa qui in Italia da Sky Atlantic, infatti c’è molto altro.

 

L’idea viene dall’omonimo film del 1973, scritto e diretto dal romanziere Michael Crichton. Alcune cose sono cambiate (ovviamente), altre sono state semplicemente riadattate. Ma l’ambientazione - più o meno - resta la stessa: un parco a tema, i robot e il dilemma assoluto dell’uomo creatore. Perché è di questo che Westworld parla: di vita. E per quanto possa sembrare una trama interessante per un videogioco, non c’entra niente con le console e con i computer. Gli ospiti del parco giocano. Incontrano robot, li uccidono, ci vanno a letto. Si divertono. Panem et circenses, ma per pochi. Figurarsi quanto sia possibile, nella realtà di oggi o di domani, una cosa del genere. Quella di Westworl è filosofia ed è la previsione – più che di una sessione di gioco – del mondo del futuro. Tra uomini, ricchi sempre più ricchi (e poveri sempre più poveri), e le leggi di Asimov.

 

 

Di quesiti esistenziali, ce ne sono a bizzeffe: chi siamo noi per dare la vita e per toglierla? E ai robot, cosa altrettanto fondamentale, è giusto lasciare libero arbitrio oppure no? Tutto parte dalla mente geniale del dottor Robert Ford, il personaggio interpretato da Anthony Hopkins: che ha una visione, autolimitante, di Westworld. Le macchine restano macchine, non sono – e non devono – essere persone. La pensa diversamente il suo braccio destro: Bernard Lowe, interpretato da Jeffrey Wright. Ci sono anche i cattivi, come l’ospite senza nome interpretato da Ed Harris: uno dei personaggi più efficaci e interessanti, di una curiosità macabra e malvagia, e comunque – nonostante gli eccessi – credibile. Quello che vuole è andare a fondo. È stato al parco altre volte, e ora vuole arrivare al suo livello più profondo. Il gioco nel gioco. Una matrioska senza fine. Dove si ammazza, si stupra e si spara. Ma finché a “soffrire” – le virgolette sono d’obbligo - sono robot, androidi, esseri simili a noi ma “artificiali”, che male c’è? Non hanno un’anima, loro. Non hanno un cuore. O forse sì?

 

Jonathan Nolan, che ha firmato alcune delle sceneggiature più belle per il fratello Christopher, crea, insieme a Lisa Joy, un mondo intero. Limitato, con i suoi confini, a cui si accede tramite un tunnel, e in treno. Ma in tutto simile al nostro. Ci si pone anche il problema, anzi, che sia troppo realistico e che i clienti possano decidere di non tornare. No, Westworld non è un videogioco: né di oggi, né del futuro. Siamo noi, siamo quello che diventeremo. Distributori di vita, di coscienze e disgrazie. Per noi stessi e per il mondo e per le cose che abbiamo costruito.

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