Il filosofo Herbert Spencer

Rileggere Spencer per smetterla di prendersela con il popolo #webete

Federico Morganti
La nuova traduzione di Mingardi de "L'uomo contro lo Stato" e alcuni spunti utili nel dibattito sulla gara (al ribasso) tra rappresentati e rappresentanti. La politica non acquisisce chissà quali conoscenze per il solo fatto di detenere potere.

Se il popolo è webete, come ci ha mostrato Mentana, cosa ci assicura che i suoi rappresentanti siano migliori? Lorenzo Castellani ha suggerito sul Foglio che i governanti non sappiano governare a causa del proliferare di convinzioni irrazionali; e se la politica riflette le credenze irrazionali del popolo, la cura non può essere che una classe politica che possieda conoscenze specifiche, cioè tecniche. Questo problema fu già dibattuto nell’Ottocento, ben prima che il web iniziasse ad agire da cassa di risonanza delle opinioni dei cittadini. Come possiamo essere certi che le decisioni del legislatore avvengano alla luce delle conoscenze più rilevanti per la soluzione di un problema? Mentre Mill ritenne si dovesse puntare sulla conoscenza migliore, attraverso il doppio voto alle persone istruite, il suo contemporaneo Herbert Spencer capì che la soluzione risiedeva piuttosto nel limitare al minimo lo spazio decisionale del governi. E' quanto emerge da "L’uomo contro lo Stato", che abbiamo oggi l’opportunità di rileggere grazie alla pregevole traduzione di Alberto Mingardi (Liberilibri).

 

Posti di fronte a un’emergenza sociale, i cittadini sono soliti affidarsi allo stato. Si presuppone che i decisori politici possiedano le capacità e le conoscenze necessarie per affrontare una data emergenza. Spesso accade però che l’intervento pubblico, anziché eliminare il danno, lo aggravi. Racconta Spencer che quando, alla metà del secolo, le tasse su mattoni e legname incentivarono l’uso di materiali scadenti, lo stato varò nuove norme che stabilivano uno standard qualitativo per la costruzione delle abitazioni. Il risultato fu che a Londra pochi poterono permettersi gli affitti delle nuove case, e gli operai furono costretti ad affollarsi nelle case popolari. Una misura pensata per migliorare le condizioni dei più poveri aveva finito per peggiorarle.

 

L’errore è presupporre che i governanti sappiano come risolvere il problema delle condizioni abitative. Ma ogni nuova norma introdotta altera la condotta degli attori sociali, secondo modalità che nessun legislatore è in grado di prevedere. Le conoscenze necessarie per affrontare un problema sociale sono sempre locali, disperse, ed è impossibile sapere in anticipo quali informazioni siano rilevanti per la soluzione dei problemi. Soltanto dalle scienze sociali il legislatore potrà apprendere qualcosa di utile, ma si tratta di una lezione d’umiltà: esse insegnano che la società è un “organismo” che cresce spontaneamente, e le istituzioni che regolano la vita sociale – lo scambio, i prezzi, il linguaggio – sono, scrive Spencer, “il risultato delle attività spontanee, individuali o collettive, dei cittadini”.

 

Se il problema, come ha scritto Rosamaria Bitetti, è che lo stato prende troppe decisioni, la soluzione è ridurle, delegandole alla società civile: ammettendo un processo decisionale il più possibile aperto e decentrato, che consenta l’esplorazione di una pluralità di strategie. E' dalla società civile che sono arrivate le più alte conquiste della scienza e della tecnologia, rispetto alle quali lo stato si comporta da parassita: “Provate a togliere al meccanismo politico tutti gli strumenti fornitigli dall’arte e dalla scienza, lasciandogli soltanto quelli che si sono inventati i suoi funzionari, e vedrete che non potrà far nulla”.

 

Insomma, il problema della conoscenza nelle decisioni politiche è strutturale: non riguarda solo gli elettori, ma anche gli eletti. Dall’Ottocento spenceriano dovremmo forse recuperare un po’ di scetticismo sulle capacità dello stato: un’organizzazione fatta di esseri umani, anch’essi un po’ webeti, che non acquisiscono magicamente più conoscenze solo perché hanno più potere.

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