Enrico Mentana, inventore della parola "webete" (foto LaPresse)

Mediatica o no che sia, la democrazia è piena di #webeti. Per definizione

Rosamaria Bitetti

Noi ci crogioliamo nell’idea che il controllo democratico sia sufficiente a evitare decisioni sbagliate. Ma oggi chiediamo al cittadino di rispondere su riforme costituzionali, trivelle, sistemi monetari, a chi non sa nemmeno la differenza fra una legge elettorale maggioritaria e una proporzionale.

Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito: intorno al neologismo che segue la strenua lotta di Enrico Mentana contro gli avvelenatori di pozzi, si è sollevata la gioia di chi poteva, finalmente, imputare alle deficienza degli altri tutti i problemi del paese. Non che chi diffonde la bufala del grado del sisma ritoccato, o propone di risolvere il problema dell’immondizia a Roma con pannolini lavabili, non sia effettivamente un po’ webete. Però quello è il dito, mentre la luna è un sistema decisionale così esteso e pervasivo che si aspetta da tutti opinioni informate e razionali. Opinioni che l’elettore medio non è in grado di offrire.

 

Correttamente, su queste colonne, Lorenzo Castellani ieri ha legato il problema a quello della democrazia mediatica, ma forse l’aggettivo è superfluo. I media, internet, non sono che uno strumento: danno voce a idiozie e le diffondono, ma non snaturano l’essere umano. E l’essere umano è imperfetto, ha una conoscenza imperfetta, è pieno di bias cognitivi, e pigro. Già nel 1957 – ben prima di internet e programmi televisivi che dovevano riempire ore di palinsesto sull’ultima catastrofe, arrabattando qualsiasi sciocchezza in merito – Anthony Downs spiegava che la mole di informazioni necessaria perché un cittadino sia realmente informato su tutte le decisioni di una democrazia moderna è talmente alta, rispetto al beneficio marginale del suo potere elettorale, che è per lui razionale rimanere disinformato (“An Economic Theory of Democracy”).

 

Noi ci crogioliamo nell’idea che il controllo democratico sia sufficiente a evitare decisioni sbagliate – soddisfacendo qualsiasi critica di questo regime con l’adagio di Churchill: siccome non c’è niente di meglio, allora va bene così. Ma davanti a uno stato sempre più pervasivo, e tenuto quindi a prendere decisioni sempre più complesse, l’uomo della strada è inutile. Quando il re d’Inghilterra chiedeva ai rappresentanti dei tassati se poteva imporre un nuovo balzello per una guerra, questi erano più o meno in grado di fare un’analisi costi benefici e capire cosa gli conveniva. Ma oggi chiediamo al cittadino di rispondere su riforme costituzionali, trivelle, sistemi monetari, a chi non sa nemmeno la differenza fra una legge elettorale maggioritaria e una proporzionale, non ha una vaga idea del quantitativo di energia richiesta per tenere accese le luci nel suo paese, non saprebbe descrivere, messo alle strette, cos’è un tasso di cambio.  

 

Il problema non è che  sul web se ne discute male, ma è alla base: è l’idea che un meccanismo imperfetto di aggregazione collettiva di preferenze individuali imperfette  possa prendere decisioni sempre più complesse. In una raccolta di saggi postuma, “Governare il vuoto” (Rubbettino, 2016), un gigante come Peter Mair fa il punto di come nella letteratura politologica ci sia diffusa preoccupazione nei confronti di questo potere ingovernabile, la cui prima risposta è il disinteresse dei cittadini. D’altronde, come potrebbero voler conoscere di più, quando le decisioni sono così complesse e lontane dalla propria quotidianità? Mair non è soddisfatto dalla soluzione tecnocratica – ovvero l’idea che siano gli esperti a dover decidere su questioni complesse: un modello a lungo adottato dall’Unione europea, e sempre più in crisi. Pensiamo a Michael Gove, che non riuscendo a presentare nessun economista a sostegno della Brexit, affermò che i cittadini britannici ne avevano abbastanza, degli esperti. 

 

Infatti l’altra risposta alla tecnocrazia è il populismo: il proliferare di false spiegazioni, semplici abbastanza da farsi capire, individuare un cattivo e un’apparente soluzione. Il loro unico difetto è che sono sbagliate: sia fattualmente, sia nella logica. In maniera così plateale che non solo un esperto, ma anche qualcuno che ha voglia di controllare su Wikipedia potrebbe accorgersene. Invece in migliaia condividono la bufala: perché conferma i nostri pregiudizi. Perché quando votiamo, o discutiamo nell’arena pubblica, non paghiamo tutte le conseguenze delle nostre scelte, e non abbiamo incentivo a informarci correttamente: ci affascinano di più le notizie che confermano i nostri pregiudizi, e non quelle che stonano con il nostro mondo.

 

Bisogna però chiedersi: il problema è il popolo dei webeti, o il fatto che la democrazia chieda troppo a esseri umani imperfetti? La deliberazione democratica è stata presentata a lungo come panacea di tutti i mali, una sorta di essere superiore che avrebbe superato tutti i limiti individuali, e che quindi poteva espandersi a dismisura. Forse è invece il caso di tornare ad ammettere che non siamo angeli, e che qualsiasi sistema di decisioni collettive e collettivizzanti, se si espande troppo, diventa ingestibile. Con o senza Facebook.

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