Piazza del popolo a Roma (Andy Hay via Flickr)

Il miraggio di un agosto in città che sia deserto, e invece è solo noioso

Nadia Terranova
Secondo il Cescat quest’anno a Ferragosto le città non si sono svuotate e a Roma, oltre i turisti, ci sono un milione e settecentomila residenti. Difatti nel mio quartiere non si trova facilmente posto sulle panchine.

Secondo il Cescat quest’anno a Ferragosto le città non si sono svuotate e a Roma, oltre i turisti, ci sono un milione e settecentomila residenti. Difatti nel mio quartiere non si trova facilmente posto sulle panchine.

 

Nel tardo pomeriggio di ieri due pensionate hanno trovato il loro sedile occupato da ventenni che facevano l’aperitivo come fossero nel Salento. Si sono spostate sulla panchina di fronte ma in segno di protesta hanno steso il giornale prima di sedersi: che schifo, magari prima c’era un giovane, non se n’erano mai visti di questi tempi. Ho ripensato a quando per sbaglio mi ero ritrovata incastrata nel mio primo Ferragosto romano e, illuminata dal miraggio di un deserto vero, avevo giurato che l’avrei trascorso così per sempre.

 

All’epoca nella mia via eravamo io, una storica coppia di ladri d’appartamento, e Mario del piano di sopra che una volta a settimana tornava da Ladispoli a dare da mangiare al gatto. Il portiere andava in ferie allo stesso modo di suo padre nel Dopoguerra: quindici giorni nelle annate magre, tutto il mese in quelle grasse. L’asfalto si squagliava e le saracinesche restavano chiuse fino a settembre, ogni tanto in cronaca appariva ancora il giallo dell’estate. Era l’inizio del Duemila, era ancora il Novecento.

 

Poi le cose sono cambiate, e ieri la pizzeria mi ha detto che non aveva posto, come mi era venuto in mente di non prenotare? Avrei dovuto capirlo la sera in cui vicino al mio c’era un tavolo con una festa, e quando mai li avremmo raccattati quindici amici in città ad agosto, negli anni in cui avevamo ancora voglia di festeggiare i compleanni. Gli economisti danno la colpa alla crisi, i cattolici alla disgregazione della famiglia tradizionale che non riempie più il bagagliaio per trasferirsi tre settimane a Tor San Lorenzo, i meteorologi al tempo guastato, i saputelli al fatto che si è sparsa la notizia che è meglio partire a luglio. Intanto, quelli che postano tramonti da Zanzibar hanno messo la risposta automatica, se scrivi dicono che non sono connessi fino al trentuno, proprio irraggiungibili, spiacenti. Cinque minuti dopo, dallo stesso indirizzo, arriva puntuale il messaggio: ehi ciao, come stai? I tramonti a Zanzibar lasciano molto tempo libero, ma va bene così, in fondo è uno in meno sulla panchina (ma forse sta rispondendo da quella accanto, farsi un Instagram mitomane non è mai stato così facile).

 

Siamo un milione e settecentomila e non abbiamo niente da fare, però quando eravamo di meno i sindaci sentivano il dovere morale di intrattenerci e ora no, qualcosa non mi torna. Allora ci intratteniamo da soli. La sera andiamo nei multisala aperti, le poche iniziative all’aperto sono bruttine, nessuno ha occupato un teatro, qualcuno ha abbandonato un divano di fronte a un cassonetto: un invito a sedersi con una birretta, indignarsi molto e scattare alla spazzatura in esubero foto di denuncia da postare su Twitter. La mattina io vado in biblioteca perché lì non c’è l’aria condizionata, se resto a casa finisce che la tengo accesa tutto il giorno e la sera mi gocciola il naso; sono affezionata ai miei vicini di tavolo che studiano il pappagallo ara, il tantrismo e il principio di Eisenberg, si innervosiscono se pigio troppo forte sui tasti e davanti alla macchinetta del caffè fanno due chiacchiere che sono veramente due, poi ciascuno torna ai fatti suoi perché il galateo dell’estate in città implica che non ci si chieda mai: come mai non sei partito? Le ragioni di un agosto romano non sono belle da verificare, se invece sei rimasto perché ti piace e basta non ha senso confessarsi l’ovvio.

 

Così, dalla noia di questa umanità abbandonata alle sorti di una capitale di cui non importa niente a nessuno, c’è speranza che nasca qualcosa di buono. Alla mia libreria dell’usato di riferimento la vita va come al solito: tutto Montanelli in una scatola di scarpe, un vecchio libro di Cancogni dedicato a Bobbio, un saggio sul romanzo che era morto già negli anni Cinquanta, un milione di romanzi dagli anni Cinquanta in poi. Di solito è vuota, ma oggi c’erano quattro clienti e anche lì m’è toccata la coda; mentre a Capalbio e a Cortina il perpetuo Festival del Libro non si ferma mai, a Roma per solitudine o disperazione, per un colpo di caldo, di libertà o di disperazione, qualcuno forse ha cominciato a leggere.

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