Metodo comune e pensiero autonomo. Cosa manca ai maturandi oggi
Appello ai commissari d’Italiano: se stamattina qualche studente dovesse esordire agli esami di stato riempiendo il tema di fesserie, ovvero di pareri in libertà solipsistici e ingiustificabili, perdonatelo. E’ colpa di un articolo uscito ieri su Repubblica, in cui Paolo Di Paolo chiedeva ai maturandi d’Italia quali tracce ideali sognano di svolgere; non quelle che ritengono più probabili né quelle su cui si sentono più ferrati, ma proprio quelle su cui sentono l’urgenza di scrivere per sei ore. Purtroppo però, quando chiediamo loro di sorprenderci, gli adolescenti diventano prevedibili. Da Lecco a Catanzaro desiderano scrivere su vita, futuro e felicità; smaniano di scrivere di sé, delle proprie “personalità complesse”, di “cosa ho scelto di far mio o comunque ha influenzato di più la mia persona, la persona che sto pian piano costruendo”, di “chi sono io, come persona, con tutti i difetti che posso avere e con tutti i pregi”; valutano sì di spingersi a scrivere dell’Isis, dei migranti, delle unioni civili o di Giulio Regeni, ma soltanto dal versante di ciò che la notizia ha scatenato in loro. Bramano insomma la fusione fra l’autobiografismo dei social network e il famigerato tema di attualità che fu precoce tomba delle velleità sociali di noi maturandi di fine millennio.
Il foglio protocollo mal si addice all’espressione delle idee nascenti. Mentre voi leggete questo pezzo, loro sono seduti su banchi ben discosti l’uno dall’altro e stanno scoprendo che, soli di fronte a quelle bianche righe e ai minuti che passano angoscianti, è un vantaggio disporre di contenuti pregressi su cui scrivere; poter riversare in quel vuoto la linea evolutiva dei romanzi pirandelliani o gli equilibri mondiali postbellici è un rifugio più sicuro della creatività scatenata. Chi più, chi meno, da settembre a giugno hanno ricevuto nozioni ossia idee già digerite e, per andare sul sicuro, preferiscono cercare di ricordarsele approssimativamente piuttosto che dover costruire a tentoni un lume nuovo. Se ci provassero, sentirebbero quanto lungo è il foglio bianco e quanto impassibili sei ore che non si lasciano riempire da pensieri che nella testa vorticano come interi sistemi metafisici ma, passati per la penna, diventano abbozzi e moncherini. Nulla stamane li avrebbe terrorizzati più di un commissario che avesse aperto la busta e proclamato: “Tema libero”.
L’inchiesta di Di Paolo è impostata su una dicotomia tradizionalmente cara alla retorica un po’ gauchista del ragazzo-che-ha-tante-cose-da-dire-ma-lo-costringono-a-studiare-Carducci: il lamento sul fatto che a scuola gli studenti vengono giudicati su ciò che sanno anziché su ciò che pensano, fondato sul paralogismo che, se una scuola trasmette contenuti, allora non favorisce il pensiero critico. Quest’inconciliabilità è mitologica. Anzi, introdurre al liceo la scrittura creativa – non parlo di corsi Holden ma di libera espressione periodica di opinioni, narrazione di sé, elogi di ragazze, cronache di partite, spiegazioni di perché la chimica fa schifo – sarebbe il mezzo più sicuro per salvaguardare l’insegnamento nozionistico di necessari contenuti. L’esercizio di libera scrittura abituerebbe gli studenti ad argomentare retoricamente, strutturare un ragionamento e capire che qualsiasi cosa abbiano da dire diventa interessante soltanto se riescono a trasmetterla come bella o giusta. Aiuterebbe una generazione a crescere accorgendosi di quanto iato corra tra fatti e opinioni, materia in cui l’Italia è sempre stata piuttosto carente, e scoprendo che non tutti i fatti sono opinabili né tutte le opinioni degne di tribuna. Noterebbero che ai loro moti d’animo manca un vocabolario e che la pochezza semantica limita le emozioni che riescono a provare. Infine, a furia di vedere le spinte velleitarie delle loro convinzioni egocentriche scontrarsi con l’immota pagina bianca, si accorgerebbero che le opinioni sono sopravvalutate, a meno di zavorrarle con dati di fatto; scoprirebbero che conviene studiare qualcosa.
Scrittori del novecento