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I nemici occidentali dell'occidente

Luciano Pellicani

Contro il perfettismo dei critici contemporanei della democrazia liberale. Dire che quelle occidentali sono “di facciata” significa riproporre la sentenza pronunciata dalla Internazionale stalinista, secondo la quale non c’era differenza alcuna fra la dittatura fascista e la democrazia borghese

La rivista Vita e Pensiero ha recentemente pubblicato un testo di Jürgen Habermas nel quale è riproposta, con qualche aggiornamento, la famosa “teoria critica della società” della Scuola di Francoforte, che altro non era che una condanna senza appello del mondo moderno e di tutte le sue istituzioni. Prima fra tutte, la democrazia liberale, che l’allievo di Theodor Adorno e Max Horkheimer oggi non esita a definire “democrazia di facciata” a motivo del fatto che ormai nulla sembra in grado contrastare il “capitalismo sfrenato”.

 

La prima osservazione da fare è che non è affatto vero il mondo occidentale sia dominato dal così detto “paradigma unico”. Tutto il contrario. E’ vero che la bancarotta planetaria del totalitarismo marxleninista ha posto fine alla guerra ideologica fra “paralitici” e “epilettici”. Ma questo non ha portato all’estinzione della contrapposizione “destra-sinistra”. Tale contrapposizione ha assunto le forme di un conflitto “ritualizzato” in cui non vi sono nemici da annientare, bensì avversari che si confrontano nella agorà centrata su quello che Kant chiamava “l’uso pubblico della ragione”. Accade così che oggi, nella civiltà in cui e di cui viviamo, si confrontano due modelli di società: quello liberista e quello liberal-socialista.

 


Jürgen Habermas


 

La seconda osservazione è che dire – come fa Habermas – che le democrazie occidentali sono “di facciata” significa riproporre la sentenza pronunciata dalla Internazionale stalinista, secondo la quale non c’era differenza alcuna fra la dittatura fascista e la democrazia borghese. Quest’ultima era un “totalitarismo mascherato” grazie al quale il Grande Capitale esercitava il suo dispotico dominio su tutto e tutti. Certo, fra la democrazia ideale e la democrazia reale è sempre esistita una distanza non piccola. E questo perché la democrazia secondo il suo concetto esige l’eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini. Una cosa che non è dato riscontrare anche nelle più democratiche delle società, tutte regolate da quella che Roberto Michels battezzò “legge ferrea delle oligarchie”. Il che avviene a motivo di un fatto sottolineato con particolare vigore da Engels nella sua polemica contro gli anarchici: e cioè che “volere abolire l’autorità nella grande industria, è volere abolire l’industria stessa, distruggere la filatura a vapore per ritornare alla conocchia” e alla “vecchia merda”, la lotta accanita e feroce per l’accaparramento delle risorse scarse. In effetti, nelle società di grande scala domina il potere della divisione del lavoro, che è inevitabilmente gerarchica. E si tratta di un potere impersonale, che s’impone con pronto automatismo e con il quale tutte le utopie immaginabili devono fare i conti. Hanno quindi ragione coloro che, come Habermas, lamentano lo scarto esistente fra la realtà e l’ideale. Ma ciò non rende vera la perversa teoria secondo la quale non ci sarebbe differenza alcuna fra dittatura e democrazia liberale.

 

La differenza c’è: e si tratta di una differenza enorme. Nelle società rette da regimi costituzionali è stato eliminato, grazie alla istituzionalizzazione della nomocrazia, il più terribile dei poteri: quello “di far morire e di lasciar vivere” (Foucault). Un risultato davvero straordinario, una volta che si tenga presente che la storia di tutte le civiltà è stata caratterizzata dalla più totale discrezionalità del potere di cui godeva il despota. Persino i ministri vi erano assoggettati, talché giustamente il grande Montesquieu sottolineò che nei regimi dispotici regnava, sovrana, la paura.

 

A ciò si deve aggiungere che il processo democratico ha prodotto quello che Talcott Parsons ha descritto come il passaggio dal “modello della sudditanza” al “modello della cittadinanza”. Nelle democrazie liberali il suddito, oltre a essere al riparo dagli interventi arbitrari del potere, gode di un pacchetto di diritti (civili, politici e sociali) che lo stato è tenuto a riconoscere e garantire sia formalmente che materialmente. Non sempre lo fa, ed è appunto per questo che esistono i “moderni tribuni della plebe” (sindacati e partiti socialisti) la cui funzione storica è la difesa dei diritti delle classi proletarie.

 

Tutto ciò significa che l’apprezzamento sociologico della democrazia moderna deve essere fatto in base a due criteri. Il criterio della comparazione storica, da cui emergono gli enormi progressi, materiali e morali che, attraverso mille conflitti di interessi e di valori, sono stati realizzati; e il criterio della comparazione con l’ideale democratico, da cui, inevitabilmente, emergono le insufficienze della democrazia reale. Dimenticare ciò, significa imboccare la via del perfettismo che fu l’errore che fece Marx, il quale – l’osservazione, acutissima, è di Galvano Della Volpe – “in nome di una libertà mitica, rifiutò la libertà reale”. Che è lo stesso errore che commette Habermas quando afferma che il compito dell’intellettuale progressista è quello di “demistificare” le istituzioni liberal-democratiche esistenti per far emergere il loro carattere illusorio. Il compito dell’intellettuale dovrebbe essere un altro: quello di criticare, sì, le inadempienze della democrazia reale, ma senza dimenticare che essa – pur con tutti i suoi limiti – rappresenta un bene preziosissimo che va difeso e sostenuto con la massima energia. E tenendo costantemente presente quello che accadde negli anni Trenta in Germania, quando, in nome della democrazia ideale, comunisti e socialdemocratici tolsero il loro sostegno alla imperfetta democrazia esistente e, precisamente per questo, aiutarono oggettivamente i nazisti a impossessarsi del potere. Allora risultò con evidenza solare quell’abissale differenza fra democrazia liberale e dittatura che Habermas – tuttora prigioniero della filosofia oracolare dei suoi maestri francofortesi – non sembra essere in grado di percepire. La percepisce, invece, Giovanni Sartori quando attira l’attenzione sul fatto che “il vero pericolo che minaccia una democrazia che non ha più ufficialmente nemici, non sta nella concorrenza di controideali; sta nel reclamare una vera democrazia che scavalca e ripudia quella che c’è”. Con tutte le conseguenze facilmente immaginabili. 

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