Toni Servillo in una scena del film "Le confessioni"

Sarà il cristianesimo francescano a fare da antagonista al Dio denaro?

Alfonso Berardinelli
“Le confessioni” di Andò e Servillo e un mondo in cui i ricchi e potenti sfidano il Creatore cercando l’assoluzione. Qui non si tratta infatti di assolvere o condannare un uomo, ma un intero sistema di sistemi, di attività bancarie internazionali al loro massimo livello decisionale, il più segreto, inviolabile, esoterico.

Vedendo “Le confessioni” di Roberto Andò e Toni Servillo, ho dovuto subito pensare a una decisa scelta di genere. Come una volta si teorizzava e si praticava il romanzo-saggio e il “conte philosophique”, come fecero Moravia, Calvino e Sciascia, ora questo genere dà nuovi frutti nel cinema saggistico e di idee di Andò e Servillo. Il primo è un illuminista che mira al bersaglio del come, perché e a che prezzo si fa politica oggi. Il secondo è un attore (oltre che regista) con l’istinto dell’intelligenza, a cui dà corpo in tipi e parabole messe in scena con un metodico rigore cartesiano. Servillo manovra se stesso dall’interno e dall’esterno ottenendo il massimo di incisività comunicativa con minimi gesti espressivi e assoluto tempismo. Andò fa altrettanto calcolando al millimetro i suoi mezzi come sceneggiatore e regista, nell’uso della fotografia e nel montaggio.

 

Ho sentito dire che “Le confessioni” ha irritato qualche critico cinematografico a cui la serietà di intenti dà fastidio e la mancanza di volgarità fa paura. In effetti si tratta di un film didattico e polemico. Ma di tali caratteristiche mi pare che in tempi come questi si senta un certo bisogno. Benché italiani, non vogliamo solo divertirci. A volte capire è ancora più divertente che ridere. Il mondo attuale appare ormai a tutti come una gigantesca macchina economico-finanziaria a funzionamento automatico la cui logica, anche quando è spietata nei confronti di milioni di esseri umani e di intere nazioni, si presenta sempre come irrefrenabile, impersonale, asettica. Questa macchina, più che essere nelle mani di supertecnici e di oligarchi del management, li usa come ingranaggi umani. In loro la scienza e la teoria dei sistemi, l’intreccio di scelte economiche e di norme giuridiche, sembra che lasci posto solo alla libertà di “ubbidire creativamente”, adattando cioè programmi prestabiliti a circostanze variabili e a casi imprevisti. Uno scopo generale in termini di filosofia sociale non c’è. Il solo fine è che i mezzi siano tenuti in funzione con la copertura di feticci terminologici come “crescita”, “sviluppo”, “equilibrio” ecc. Sembra una forma di umanesimo senza umanità, nel quale la felicità collettiva viene identificata con la moltiplicazione di una ricchezza fatta di numeri che appaiono e scompaiono, al di là dei quali si spalanca un vuoto mistico: come si vede alla fine del film, una formula matematica intraducibile in parole che esprime l’impotenza e il nulla, nonché qualche marginale, “inevitabile” catastrofe locale.

 

Ho così anticipato, ahimè, quello che mi è parso il messaggio del film. Ma vedere il film è molto meglio che leggere nero su bianco le sue ragioni. In un immacolato, un po’ gelido hotel nella Germania settentrionale, con vista sul Baltico, si tiene una riunione molto esclusiva e molto riservata fra i vertici bancari delle maggiori potenze economiche del mondo. Solo che in questo caso il presidente del Fondo monetario internazionale (un intenso e impeccabile Daniel Auteuil) ha preso l’iniziativa di invitare tre personaggi fuori programma: un famoso cantante rock americano, un’autrice (credo scandinava) di bestseller per l’infanzia e un monaco certosino italiano (Servillo). Sull’opportunità e lo scopo di questi inviti c’è perplessità e disappunto fra i top-manager. L’economia mondiale è una cosa seria, chi ne tiene le fila non gradisce gli intrusi e ci tiene alla riservatezza. E’ assai dubbio che possa servire a qualcosa mescolarsi con un fascinoso cantante, una magnetica scrittrice e uno stravagante monaco. Quest’ultimo, poi, si mostra subito, nei suoi comportamenti, come un inquietante enigma. Pratica la disciplina del silenzio, a cena non mangia, sgranocchia noci, si apparta contemplativo e registra il canto degli uccelli, se interrogato tace o non si spiega e le sue laconiche risposte sono provocatorie e frustranti.

 

Succede però che a sorpresa, dopo il primo momento di convivialità, il presidente del Fondo monetario faccia chiamare in camera sua il monaco e gli chieda di confessarsi. Confessione lunga, complessa, non priva di pathos, i cui frammenti verranno intercalati in flashback nel corso di tutto il film. Lui parla di sé, dei suoi successi, del lavoro e della missione dell’economista (mettere un po’ di ordine nelle cose) e infine rivela di essere incurabilmente malato. Vorrebbe un’assoluzione e gli sembra naturale poterla avere. Il monaco però non gliela concede. Sarà Dio a giudicare. Qui non si tratta infatti di assolvere o condannare un uomo, ma un intero sistema di sistemi, di attività bancarie internazionali al loro massimo livello decisionale, il più segreto, inviolabile, esoterico. Qualcosa che insomma imita, usurpa e sfida Dio, perché trascende la volontà e le aspettative del genere umano, si sottrae di fatto a ogni controllo democratico, manovra mezzi economici con acrobatica competenza, avendo preliminarmente distrutto ogni scopo che non sia l’autoconservazione.

 

Insomma: un monaco cristiano e la sua idea di civiltà a confronto con una casta di banchieri e la loro idea di civiltà. Una favola? Si, perché alla fine il monaco vince, cosa che nella realtà non si è ancora verificata. Un avvertimento comunque c’è: sappiano gli economisti al potere che avranno nel cristianesimo certosino o francescano un sicuro antagonista.

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