Il senatore Luigi Manconi

Il corpo e l'anima di Manconi contro i moralismi della gauche. Un bel libro

Salvatore Merlo
Un piccolo, affettuoso monumento alla passione civile e politica della sinistra come non è (o come potrebbe essere), una carezza alla biografia d’un uomo morale, questo libro-colloquio, contrappuntato d’ombre malinconiche e d’improvvise digressioni più leggere.

E’ un piccolo, affettuoso monumento alla passione civile e politica della sinistra come non è (o come potrebbe essere), una carezza alla biografia d’un uomo morale, questo libro-colloquio, contrappuntato d’ombre malinconiche e d’improvvise digressioni più leggere, che Christian Raimo costruisce assieme (e intorno) a Luigi Manconi, protagonista e narratore di se stesso. S’intitola “Corpo e anima” (Minimum fax), che sono poi la materia di cui queste duecento pagine sono composte, malgrado la parola scritta sia sempre insufficiente testimone del mondo che la esprime.

 

Ed ecco allora gli anni Settanta, il servizio d’ordine di Lotta continua di cui Manconi fu uno dei capi, l’amicizia con Adriano Sofri che si affaccia appena, ma c’è, come pure quella con Mauro Rostagno. E poi il sangue di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, le lotte civili, l’impronta di Marco Pannella, mai citato eppure presentissimo, in una dimensione in cui la politica non è uno spazio di cinica o libera espressione, ma è impegno carnale, emotivo, sentimentale, severo, persino eccessivo: i diritti degli omosessuali, la solidarietà come risorsa di giustizia, e il garantismo che è risvolto d’umanità e d’uguaglianza, perché, dice Manconi in una delle tante pagine felici di questo libro, “dobbiamo tenere conto dell’individuo e della distanza tra la norma astratta e la dura concretezza della vita, delle sue contraddizioni e dei suoi dolori”, delle storie “che non stanno tutte dentro il perimetro della legge”.

 

Tutto si tiene, la letteratura, la politica, la poesia, la scrittura e il gusto ponderato per la parola, per la serietà del suo uso, poiché “nelle ambiguità e oscurità della vita”, la parola non è mai fine a se stessa, ma è codice, pensiero, interpretazione, senso: dunque politica. Così, segnato dai rigori di un’implacabile e progressiva perdita della vista, da una cecità quasi completa, con un’ombra di delicata malinconia, in queste pagine Manconi racconta a Raimo come il suo terrore vero sia dimenticare le parole lette un tempo, “quella riserva di conoscenze e sensazioni, esperienze e nozioni, storie e interpretazioni, informazioni, dati e date, titoli nomi e cognomi”, che oggi lui non può più rinnovare.

 

Uomo di sinistra ma di una sinistra che forse non c’è, Manconi esprime un distacco sarcastico, aggressivo, per una certa gauche da opinione pubblica, forse oggi sconfitta, in disarmo, ridotta agli ultimi stanchi barbagli, che tuttavia lui si spinge a detestare, tratteggiandola con ironia contundente. “Figure quasi grottesche”, scrive, “il giornalista sudaticcio che parla sempre e comunque a nome della gente”, “l’attrice comica che fa l’imitazione di Berlusconi senza rendersi conto che sta facendo l’imitazione dell’attrice comica che fa l’imitazione di Berlusconi”, “il teorico del cicorione a chilometro zero”, “il musicista che usa la tv del concerto del Primo maggio per parlare male della tv”, “il romanziere che giura: ‘Non scriverò mai più un libro perché in Italia c’è troppa volgarità, cazzo’”. Eppure, attenzione, Manconi non ha niente a che spartire con Matteo Renzi, né con il suo universo semantico, ovviamente.

 

I libri degli uomini politici in Italia non si leggono, al massimo si sfogliano, non si comprano ma vengono regalati dall’autore, sono dei non libri, si citano per servilismo o per burla, fanno politologia pronto (dis)uso, memorialistica da strapese, talvolta – ahinoi – persino letteratura da trastullo. E Manconi è un uomo politico, sì, eppure non lo è nel senso che s’intende oggi: la sua biografia è laterale al Palazzo e alle sue meccaniche, che pure ha conosciuto anche da sottosegretario del governo Prodi. Ma dopo gli anni della contestazione, il suo è stato piuttosto un costeggiare domestico della sinistra berlingueriana, l’impegnata marginalità d’un certo modo d’essere Verdi prima che arrivassero Pecoraro Scanio e il caravanserraglio delle manette, una passione più vissuta che raccontata, e che il curatore di questo libro, Raimo, ha forse voluto rendere nel sottotitolo. Quasi un invito a partecipare a un mondo che non c’è: “Se vien voglia di fare politica”.
 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.