Alla Milano Fashion Week ormai la sfilata si fa giù dalla passerella

Fabiana Giacomotti
Alcuni spettatori ormai sono diventati parte integrante e alternativa alla sfilata, ricercati, fotografati, pagati quasi quanto modelle e stilisti. I peacocks stanno all’intersezione fra la pubblicità, il reportage, lo styling e l’autoaffermazione, per cui sono necessariamente vincenti: la loro ruota è ricca come il loro stile.

Il dizionario è chiarissimo. To peacock:  dressing for attention. Cioè mostrarsi, esibirsi, volendo anche pavoneggiarsi. Non però con la stessa accezione vanesia, ché qui tutto è apparenza ma nulla è pura vanità. Ogni lingua ha sfumature lessicali intraducibili, e quella inglese interpreta al momento meglio di ogni altra la rappresentazione che si svolge da qualche tempo durante le settimane della moda, ribaltando completamente i ruoli di quella rappresentazione para-religiosa che è la sfilata: i fedeli sono infatti diventati parte integrante e alternativa alla cerimonia stessa, ricercati, fotografati, pagati quanto l’officiante e le vestali. Si sono anche trovati dei luoghi di rappresentazione propri, in quello che, sempre in metafora – ma per certe sfilate fantasiose anche nella realtà –, sarebbe il sagrato, cioè gli spazi antistanti alla passerella: è lì che decine di pavoncelli ambosessi, non di rado nogender, sostano davanti all’obiettivo dei fotografi indossando il capo più ricercato del momento, nei casi di maggior successo quello appena visto alla sfilata precedente, ancora caldo dell’ultimo colpo di ferro o del corpo della modella che l’ha indossato.

 

I peacocks, ultima declinazione dell’estetismo che ogni società trova necessario mettere in scena all’inizio o alla fine della propria parabola, vedi i macaroni dalle parrucche alte un metro che segnarono la fine dell’Ancien Régime o gli Incroyables con le trecce e i colletti enormi che segnarono il primo iato di ilarità dopo il Terrore, sono generalmente alti, belli, in grado di stratificare stili e suggestioni diverse, meglio ancora opposte, per esempio la pelliccia di mongolia con i sandali a tacco alto, oppure il pigiama di seta con gli stivaletti da cowboy. Per ruolo e spesso anche per contratto, sono magrissimi/e: non potrebbero altrimenti entrare (“to fit”, che è regola innanzitutto darwiniana) nei vestiti di campionario che le aziende di moda inviano loro direttamente a casa, talvolta accompagnati da un congruo assegno, nella speranza “di un simpatico post”. 

 

[**Video_box_2**]I peacocks stanno all’intersezione fra la pubblicità, il reportage, lo styling e l’autoaffermazione, per cui sono necessariamente vincenti: la loro ruota è ricca come il loro stile. Talvolta hanno un blog; talvolta sono stylist di fama che, come Anna Dello Russo, hanno abbandonato la scrivania agghindando se stesse come per decenni avevano fatto con le modelle; talvolta, come Pandora Sykes dell’omonima genia Londra-Mayfair, si limitano a scattarsi un selfie dopo l’altro, postandolo per la gioia di follower che possono essere molto falsi, ma anche parecchio veri. Alle griffe, per il momento, poco importa stabilire in quale percentuale: il muro del suono sono cinquecentomila followers, oltre i quali si possono anche chiedere diecimila euro per singola foto su Instagram. Gucci, che lo scorso anno aveva messo il mondo di fronte all’esistenza dello stile agender facendo sfilare modelli di sesso volutamente incerto, ha dedicato loro la sfilata di ieri infilando la pellicola di un pavone che fa la ruota nell’invito. Poi ha citato Gilles Deleuze e Felix Guattari e il pensiero rizomatico che “producono cambiamento” per darsi un tono. I giornalisti della vecchia guardia, di queste erbacee che stanno togliendo loro spazio non ne possono più.
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