Papa Francesco (foto LaPresse)

L'inconsistenza del Corvo

Mariarosa Mancuso
Origini classiche e cinematografiche del delatore per eccellenza. Il cinema ha tante colpe, ma se uno sceneggiatore scrivesse una trama simile a quella di Vatileaks verrebbe rimandato a casa a studiare. Trasparenza spacciata come un valore, qualsiasi rivelazione è “scomoda”. Potenza delle parole.

Il delatore aveva fatto il liceo classico. Per questo nel film di Henri-George Clouzot si firmava “Le corbeau”, il corvo. Aveva in mente la storia del dio Apollo, che incarica il suo corvo fiduciario – allora svolazzante con un bel piumaggio candido – di sorvegliare l’amata Coridone. La ragazza tradisce, il corvo prontamente riferisce, Apollo infierisce sul portatore di cattive notizie facendolo diventare nero come il carbone.

 

Il malaugurio appiccicato al corvo è faccenda antica, la firma in calce alle lettere anonime che sconvolgono una cittadina di provincia – da qualche parte in Francia – porta la data precisa del 1943. Il caso di cronaca che fornì al regista e al co-sceneggiatore Louis Chavance lo spunto per “Il corvo” risaliva alla guerra precedente, anno 1917: a Tulle, nel Limousin, le lettere anonime erano firmate (senza passare per il liceo classico, bastava il prontuario dei felini selvatici) “l’oeil de tigre”. Le rivelazioni della tigre erano di tipo economico-finanziario, mentre nel film riguardano amanti, aborti, malattie incurabili, conducono a un suicidio e mandano in carcere un’infermiera innocente. Eppure le letteracce continuano ad arrivare, in un bianco e nero che da solo basterebbe a far paura.

 

Il cinema rende la realtà più interessante e avventurosa, a questo servono gli sceneggiatori che sanno fare il loro mestiere. “L’occhio di tigre” era più scarso, basta immaginare i titoli sui giornali: “Occhi di tigre in Vaticano”, mica fa lo stesso effetto. Il cinema offrirà poi anche i corvi di Alfred Hitchcock, regista superficiale nel senso che odiava le metafore – sulla falsariga del grande James Ballard: “Odio il teatro perché a teatro ogni cosa sta sempre per qualcos’altro, mentre al cinema un cespuglio è un cespuglio” – ma piuttosto sinistro quando metteva in scena uccellacci che miravano agli occhi, non solo dei morti.

 

Ma, appunto, trattasi di cinema, e quindi di finzione, abbellimento, parti noiose tagliate via. La realtà ha caratteristiche più prosaiche, ridicole, abborracciate, in mano com’è a dilettanti che si arrangiano, e spesso pure si distraggono. Ecco perché le teorie del complotto fanno ridere: già è difficile far funzionare i piani alla luce del sole, quando le istruzioni sono chiare, figuriamoci quante cose possono andar male quando bisogna parlarsi in codice e lavorare in segreto, e l’obiettivo non è costruire un ponte ma conquistare il mondo. Tra le varie prove dell’inesistenza dei complotti, questa si potrebbe chiamare “la prova del pasticcione”.

 

“Il corvo” fu bandito in Francia fino al 1969. Il regista era stato sospeso a suo tempo – tornerà al lavoro con “Quai des Orfevrès”, girato nel 1947 – per aver lavorato con la Continental Films, società di produzione francese finanziata da capitali tedeschi. Non fu l’unico, era in ottima compagnia – l’unico a starne davvero fuori fu Jacques Prevert: “Fare film senza gli ebrei è un’impresa persa in partenza, prendete esempio da Hollywood”, disse quando cercarono di arruolarlo. L’ostracismo verso Henri-George Clouzot durò più a lungo perché la provincia francese non ci faceva una bella figura – come non fa una gran figura nei libri di Irène Nemirovsky, scritti allora e riscoperti decenni dopo: sospetti, spiate, denunce e voltafaccia.

 

Un articolo apparso nel 2006 su Bbc News ricostruisce la storia della delazione alla francese (l’occasione era l’affaire Clearstream: all’origine, informazioni anonime su certi conti cifrati fatte pervenire a un giudice). Il cronista si precipita al videonoleggio più chic di Parigi, Videosphere ai Giardini del Lussemburgo, senza riuscire a procurarsi il film di Clouzot che diede ai corvi la loro sinistra notorietà. Supplisce con informazioni storiche – ricordando le “lettres de cachet” che senza processo spedivano alla Bastiglia – e con una sua teoria: “Sono latini, non si fidano dell’autorità, per questo preferiscono le denunce anonime”. A sostegno della sua tesi, cita un articolo del Monde: “Non hanno smesso di farlo, in materia di evasione fiscale e di sussidi illecitamente percepiti”.

 

[**Video_box_2**]Popolo latino per popolo latino, l’Italia sembrerebbe nel raggio d’azione, quanto a sfiducia nelle autorità.

 

Eppure nessuno si sogna di denunciare il vicino che non paga le tasse, l’idraulico che non fa la ricevuta, il finto pensionato. Però i verbali escono dalle procure e le intercettazioni vengono pubblicate per pagine e pagine. Alimentando un cospicuo mercato che va sotto il nome di giornalismo d’inchiesta, cronisti a schiena dritta, gente che non si fa spaventare da chi “dovrebbe pensare solo alle nostre anime”, e invece con il denaro delle elemosine fa la bella vita.

 

Il cinema ha tante colpe, specialmente quando lo si scambia per la realtà – cosa che capita più spesso alle grandi firme che ai ragazzini per cui è stato inventato il visto di censura. Ma questa francamente non gliela possiamo imputare: se uno sceneggiatore scrivesse una cosa simile – montaggio alternato tra terrazze imbandite e piccini che non hanno di che sfamarsi – verrebbe rimandato a casa, e invitato a ripassarsi i fondamentali sulla costruzione dei personaggi e sulle complicanze del mondo. In un cinema serio come quello americano, si intende. Noi abbiamo “Suburra”, dove i dilettanti sparano meglio dei professionisti (che peraltro girano senza guardie del corpo, consentendo a qualsiasi avventizio di consumare la propria vendetta), o in alternativa Paolo Sorrentino, dove troviamo gli alti prelati elegantissimi nelle loro tonache e la santa stracciona con la ciabatta pendula.

 

Gli anglosassoni non sono esenti da malefatte, in materia di delazione, come dimostra la serie di film horror intitolata “So cosa hai fatto” – studenti che ricevono bigliettini con la scritta, riferita a festini con sbronze e incidenti mortali malamente camuffati. E come dimostra l’ultimo 007 diretto da Sam Mendes, “Spectre”. Dove la questione è così posta: “Meglio affidare la nostra sicurezza ai vecchi agenti con licenza di uccidere, oppure conviene tenere sotto controllo la nazione intera?”. I cattivi propendono per il “tutti sotto controllo”, e intanto ci chiediamo “Ma poi chi se le spulcia tutte queste intercettazioni, c’è da morire di noia, e servirebbero almeno tanti spioni quanti ne aveva la Stasi nella Germania est, più o meno metà della popolazione”. I cattivi, ripetiamo: la trasparenza non è mai stata democratica e mai lo sarà (lo è invece la privacy). E il Panopticon era stato inventato da Jeremy Bentham perché un guardiano solo potesse sorvegliare molti detenuti.

 

Potenza delle parole, la trasparenza viene spacciata come un valore, qualsiasi rivelazione viene definita “scomoda” ancor prima di controllarla, e qualsiasi pettegolo si merita subito lo statuto di “corvo”, con tutto l’immaginario che ne consegue. L’alternativa, sarebbe stato parlare di “gola profonda”. Altra frase che arriva dal cinema, ma non certo da un film che era intitolato “Tutti gli uomini del presidente” e parlava di Watergate.  

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