“Ma l’estate passerà senza che io quel libro lo scriva, né in prima né in seconda persona. Metà di te lo meriterebbe, l’altra metà no” (Annibale è il partigiano a destra con il cappello)

Mi manchi, stronzissimo eroe

Daniele Bellasio
Si può essere contemporaneamente il migliore di tutti e un feroce egoista, liberale fuori e iracondo in famiglia? Sì, se il tuo nome partigiano di battaglia è “Annibale”. “Ma a me non piace raccontare: leggi Fenoglio e capisci tutto”. Fatto. Ma non era mica merito di Fenoglio se…

Al direttore - Tutto ciò che noi siamo nel bene e nel male lo siamo per merito e per colpa dei nostri nonni. I genitori? I genitori sono soltanto causa e affetto. Io, per esempio, ho avuto un nonno eroe che era anche un grandissimo stronzo. I nonni sono ovviamente come il passato, cioè doppi: un po’ tradizione e dunque radici, un po’ conservazione e dunque freni. I nonni sono doppi perché intanto sono due e mio nonno era talmente doppio che aveva due nomi, uno corto e uno lungo; due figli, uno maschio e una femmina; due abitazioni, una in campagna e una città; due luoghi di provenienza, uno al sud e uno al nord; due squadre del cuore, due professioni, forse tre, due vite e due volti e due grandissimi denti davanti che, guarda caso, mio figlio ha tali e quali, larga fessura compresa.

 

Accadeva così. Io mi mettevo lì davanti a lui, nel tinello (e non chiamatelo diversamente: tinello era), azionavo un registratore di quelli rettangolari squadrati e con il tasto che velocizza il tutto. Facevo a fare il giornalista. Un’audiocassetta ce l’ho ancora e si sente bene. Gli chiedevo di raccontare. Lo abbiamo fatto in tanti, nipoti. Tra un “ha capito?” e l’altro – che poi non ho mai compreso se era un “ah, capito!” o un “hai capito?” – in un viterbese piemontesizzato da seconda elementare e tanta fatica come autodidatta dattilografo da garzone che buttava carbone nei treni che era, Ugo, ma nome di battaglia “Annibale”, faceva uno strano risucchio con schiocco sul lato destro della guancia, come a togliere un pezzo di insalata tra i denti, e si sottraeva, come a implorare discrezione, all’irrefrenabile desiderio del milanesello di belle speranze e tanto pane bianco, io, che voleva sapere del nonno eroe per raccontare agli altri di aver avuto un nonno eroe. “Ma a me non piace raccontare: leggi Fenoglio e capisci tutto”. Fatto. Ma Fenoglio non aveva mica la mia fronte alta, altissima, praticamente la riga in mezzo che è un po’ larga, e non è stato certo per colpa di Beppe Fenoglio che sono diventato interista, che non ho mai odiato i socialisti, che ho smesso di essere astemio, che sono scappato a Roma per non stare troppo nelle Langhe, che ho capito che la Resistenza era istinto di sopravvivenza – esattamente come la libertà – molto prima e molto più che un’ideologia di lotta. Non è stato per merito di Fenoglio che ho guidato nell’alluvione del 1994, ma perché tu e la tua Uno grigia mi avete fatto strada e coraggio.

 

No, tutto ciò e molto altro ancora è stato per colpa tua. Sì, va bene, anche per merito, e mi hai lasciato tutti i tuoi incartamenti, belli precisi e ordinati, pensando che sarebbe stato il più gradito regalo per la mia futura pensione: un computer, qualcosa di cui occuparmi, la tua cartelletta marrone piena di ritagli per riepilogare una storia, ovviamente la tua, fatta di encomi e di cronache di uno dei tuoi doppi, cioè il valoroso capo dell’intelligence partigiana con base alla Pedaggera, e poi ancora di encomi e di cronache di un altro dei tuoi doppi, cioè lo scaltro capo della polizia giudiziaria del Monferrato, e poi ancora la dettagliatissima ricostruzione dell’ingiustizia da te subìta: l’inchiesta “inopportuna” su quel locale, un cinema, con troppi posti rispetto al consentito dalla legge, ma di proprietà del senatore notabile della zona. Dunque, il conseguente richiamo a Roma e la sventurata (per te e la tua famiglia, cioè la mia) decisione di trasferirti ben oltre Bolzano. Dimissioni, addio all’Arma. Già qualche sentore che così sarebbe finita lo avevi avuto in quell’altra convocazione d’urgenza a Roma. “Senta, vedo qui un punto interrogativo rosso a fianco al suo nome. Lei è comunista? Avrebbe interesse a entrare a far parte di un gruppo riservato di difensori dell’ordine…”. Tu non avevi ben capito che tipo di offerta fosse; anni dopo, leggendo il giornale, ti interrogasti su una certa Gladio. Sì, quasi tutto è in quella cartelletta e lì resterà. E le ingiustizie che hai fatto tu? In quale faldone le mettiamo? Senso del dovere? Tantissimo. E me lo hai insegnato. Lealtà? Vera. E spero di averla imparata bene bene. Hai sempre stimato Giorgio Almirante, tu partigiano, perché veniva a prendersi le botte pur di tenere un comizio nella piazza di quella città diventata medaglia d’oro della Resistenza. Ma quanto male può fare un uomo perbene? E un eroe? Sono le due facce di una medaglia al valor militare. Anzi – non esageriamo – nonno, ti do una notizia visto che faccio a fare il giornalista: qualche volta anche tu hai avuto torto.

 

E, guarda, te lo voglio proprio dire: avevo scelto di dedicare questa estate, l’estate di una pausa dal mio lavoro consueto, per tirare fuori quella cartelletta marrone e iniziare a scrivere di te, dei tuoi due, tre te. L’ho anche sfiorata più volte, ho iniziato spesso pensosissimi fogli word, ho accumulato sulla mensola volumi su quel periodo storico, ho prima scelto la prima persona, poi la seconda persona, poi ovviamente, essendo tu doppio, le ho scelte tutte e due. Ma l’estate passerà senza che io quel libro lo scriva, né in prima né in seconda persona. Metà di te lo meriterebbe, l’altra metà no. Poi arriva il Foglio che mi dice che questa è l’estate dei nonni addosso ed eccomi qua. Maledetti affetti, sempre un po’ agri e sempre un po’ dolci, perennemente in bilico tra malinconia e amplesso, tra benedizione e peccato, ironicamente doppi. Peccato. Perché so benissimo che tu mi hai lasciato quella strabenedetta cartelletta perché io provassi a trovare la sintesi tra il tuo eroismo e la tua feroce dabbenaggine egoistica, la tua anaffettiva arroganza grintosa.

 

Negli ultimi tuoi giorni, tu che ovviamente hai deciso anche quando ordinarci di lasciarti andare, tu hai avuto il coraggio di lasciarmi due biglietti due. Doppio messaggio, certo. Il primo lo posso raccontare perché era il nome, il cognome e il numero di telefono del tizio dell’Anpi: “Ci tengo che ci sia a fianco alla bara qualche drappo garibaldino”. Ho conservato quel biglietto come un assegno circolare dal valore immobiliare. Peraltro, dietro la tua bara, c’era anche tutto il paese che all’eroe ha voluto giustamente bene anche perché un po’ gli doveva perfino la vita. E c’erano i miei più cari amici venuti da lontano. Il secondo biglietto era inserito in un libro di legge, ma non lo posso raccontare perché dovrei svelare a mia mamma, tua figlia, che cosa hai avuto l’ardire di dirci dopo che te ne sei andato. Hai voluto ribadire che avevi ragione anche quando la ragione, ove fosse stata tale, stava diventando cenere. Ci accusavi di aver messo in discussione, una volta, in vita, e sia mai, l’eroe intoccabile che credevi di essere, il tuo eroismo e il tuo aver sempre visto il giusto, anche quando avevi guardato storto. (Ma papà, tu alla mamma gliel’hai detto?) Sempre ragione, anche quando dicevi che una donna, tua figlia, mia mamma, non doveva studiare, non doveva andare alla città, non doveva stare con il milanese borghese, non doveva cercare una strada diversa da quella tracciata dal super uomo di casa, che naturalmente eri tu.

 

No, questo libro non lo scrivo non soltanto perché dovrei raccontare quel freddissimo pomeriggio di dicembre, quella busta con parole di rabbia consegnata dal finto ignaro zio a me e a mio padre; no, non lo scrivo perché la sintesi non esiste, perché la vita non è mai un punto fermo. Nemmeno tu sei un punto fermo. Nemmeno per me. Liberale e moderno fuori di casa tua, dirigista e iracondo dentro. Generoso e giocoso fuori, capace di meschinità e debolezze dentro. Sicuro fino alla morte fuori, incerto della vita dentro. Siamo tutti così? Il passato di tutti è così? Da quando ti ho conosciuto, da sempre, dai mesi trascorsi con te a raccogliere pomodori nell’orto, a guardare Mundialiti, a cogliere funghi, tu re (manco a dirlo) e io viceré di Feisoglio, hai azionato dentro di me un continuo arrovellarsi attorno a un tema – e te ne sono grato perché è il tema della vita, sì, sì, proprio nella dimensione più retorica dell’espressione – e il tema è: si può essere contemporaneamente un eroe, il migliore, e uno stronzo, un mediocre? Può la stessa persona meritare l’encomio più alto e perenne, e l’infamia del grave errore? Possiamo noi essere fatti di questo, oro e sterco?

 

Che poi, se ti posso dire, l’episodio che più mi piace raccontare ora alla mia Milano o ai miei amici non è quando sei scappato dall’ospedale in Albania, dopo cinque anni di guerra-occupazione e una peritonite, poco prima che l’ospedale fosse fatto saltare in aria: quella è fortuna! Non è neanche quello di quando hai rubato i fucili ai Giustizia e libertà di Giorgio Bocca perché “a loro le armi le davano gli americani anche se facevano poco”. Certo, è molto cinematografico il racconto della tua scoperta – il codice fatto di segnali luminosi per gli aerei yankee – utile appunto a far buttare da lassù le armi per voi “rossi” camuffati da “bianchi” almeno fino a quando, invece che casse di rifornimenti, non vi hanno iniziato a sparare della grossa. Sì, vado molto fiero del tuo te settantenne che, nel mezzo di una sparatoria contro la tua autovettura da commesso viaggiatore gioielliere, la tua terza reincarnazione, l’auto guidata da tuo figlio, mantieni il sangue freddo, afferri il volante e ti dirigi con tutta la decisione del mondo nei campi: “Non ci seguiranno, avranno paura di finire in panne e dunque di essere arrestati…”. Lì sì che avevi proprio ragione, ma non è nemmeno questo – sappilo – l’apice della tua storia nella mia memoria di nipote in cerca, come tutti, di antenati illustri e coraggiosi.

 

[**Video_box_2**]No, il racconto che da piccolo e poi grande mi ha sempre affascinato di più non è un episodio di azione, è un episodio di calma e serafica saggezza. Avevate visto di lassù, dal paese vecchio, un convoglio di motorette e camion tedeschi. Possibile? Tedeschi che si avventurano fin quassù dove nessuno ha mai osato? E in così pochi? Senza troppe difese? Tutti impauriti. Tutti dubbiosi. Tutti alla ricerca dell’ordine giusto, in fondo il più comodo: sparate! E tu: “Ragazzi, nun po’ esse’”. Per te non potevano essere veri tedeschi, quelli contro cui un po’ imprecavi ancora molti anni dopo e non tanto per colpa dell’austerità, che era ancora di là da venire, ma piuttosto guardando una partita di Coppa dei Campioni: “Se penso che i padri di questi giocatori ci volevano togliere la vita e la libertà…”. (Piccola parentesi a proposito di austerità: sai che non me la riesco più a togliere dalla testa quella tua semplice frase buona anche per un trattato di economia politica: “Dovevamo mangiare ancora per qualche anno pane nero dopo la liberazione…”). Chiusa la parentesi, insomma, tu avevi capito che quelli che salivano dai tornanti collinari e tra le vigne non potevano essere tedeschi, ma al limite erano fascisti che sfollavano disillusi dai giorni di Alba o partigiani che con mezzi conquistati al nemico cercavano riparo e ristoro qui dai voi imprendibili primule rosse del partigianato delle Langhe. E così li avevi convinti: non sparate! Non ti eri nascosto. Non eri fuggito. Non avevi paura. Avevi appoggiato la tua spalla allo spigolo del palazzo adiacente alla piazza principale, avevi lasciato che il convoglio occupasse il centro del paese, avevi ascoltato le prime frasi dei tipacci che scendevano dal camion – meno male: parole in italiano – ti eri avvicinato, li avevi salutati nella notte. Mi piace questo racconto perché insegna tutto quello che tu, come il mio passato, puoi insegnarmi. Che l’apparenza va ingannata. Che un’attesa è un grande atto di coraggio. Che appoggiando una spalla allo spigolo della vita si può vedere se quelli che arrivano sono buoni o cattivi. Non è un episodio di azione, ma ha la forza di una cannonata. E “cannonata” per te e per tutta la tua vita non è mai stato un termine militaresco ma una sontuosa e gioiosa esclamazione di piacere, come quando ascoltavi “Maledetta primavera” di Loretta Goggi: “E’ una cannonata!”. Vedi il senso doppio delle parole come “cannonata”, di una espressione come “maledetta primavera”. Io questo senso doppio non lo so ricondurre a un giudizio. Io il libro non lo scrivo. Tu chiedi subito scusa a mia mamma. Mi manchi, grandissimo stronzo.

 

Le precedenti puntate della serie sono: Annalena Benini, Marianna Rizzini, Mario Sechi, Mirko Volpi, Fabrizio Cicchitto.

Di più su questi argomenti: