Giampaolo Talani, “Notte del marinaio”, 1997

Gli spiaggiati

Il rumore del Forte

Michele Masneri
Lusso favoloso e analogico, porte con la chiave, niente led o resine, tovaglioli di lino larghi un metro, servizi silenti. Ma il mare chi lo ha visto? Benvenuti ai bagni di Fovte dei Mavmi. Gli aneddoti sui giardini di casa Agnelli, la Roma Imperiale e Peggy Guggenheim di Bergamo Alta.Tutto quarant’anni dopo.

A Forte dei Marmi il mare non esiste. Il mare forse c’è, ma è lontanissimo, schiumoso, e non ci va nessuno. Esiste la spiaggia, lunga, infinita, un altro motivo per non arrivarci, al mare; esistono gli stabilimenti, o meglio “i bagni”, e ognuno ha il suo, e ogni bagno i suoi colori e la sua livrea, e ci sono le tende, che sono come i palchi a teatro.

 

Questo mare nessuno lo guarda. Non lo guardano soprattutto le case, che son basse, alte mai più dei pini decimati dalle bufere dei mesi scorsi, circondate da alte siepi, e se proprio sono in prima fila tengono chiuse le persiane come per sdegno, come le ville Agnelli, Corsini o Ferragamo, quelle della Roma Imperiale, il miglio d’oro della costa.

 

Roma Imperiale, “trucida lottizzazione fascista”, e a dirlo non è un pericoloso no-tav ma Vittorio Maschietto, urbanista, e per caso anche proprietario di uno dei miti del Forte, cioè l’hotel Augustus, cioè poi la casa Agnelli di Vestivamo alla Marinara. Uscì nel 1975, è anche un anniversario, son quarant’anni; questo è un pezzo a chilometri zero, si scrive nel giardino dove i piccoli Gianni e Suni pascolavano.

 

L’urbanista conservatore di memorie agnelliane di mestiere fustiga anche burinate architettoniche fortemarmine; su un blog, sferza queste ville da cumenda ricoperte di “una sorta di glassa, di nuovo epitelio con tendenza al falso ma grazioso, all’ammiccamento neo-storico”. Il pericoloso urbanista, già editore architettonico, sfotte i ricchi vecchi e nuovi della costa, che costruiscono “crivellando senza pietà i poveri, vecchi e onesti intonaci, le falde dei tetti ed i giardini-pineta, con una pletora di cornici e cornicette, fasce, scossaline, comignoli, cancelli e cancelletti, recinzioni, panche e panchine, intarsi e ricorsi di materiali, balconcini, targhette ed altri optional. Si tratta di una sindrome, di cui la ricca borghesia non aveva mai sofferto, di ossessione per il make-up, che produce una specie di sfogo esantematico, il cui decorso, nella sua fase terminale, è imprevedibile, anche se mai e poi mai (noblesse oblige) potremmo accomunarla all’invasione del famigerato settenano da giardino”.

 

Nani da giardino, detto qui, fa ridere, perché tranne questa Roma Imperiale (lottizzazione trucida), qui si ha l’idea d’essere in Brianza, con la stessa cura-ossessione per siepi e cancellate, per il citofono e la tapparella giusta; il rumore del Forte del resto non è quello del mare, è un rumore ferraglioso che sembra di Smart e invece sono decespugliatori e tagliaerba che rasano, potano, assottigliano, in continuazione. Se una bomba cadesse sul Forte, probabilmente il 90 per cento delle riserve di pitosforo del pianeta scomparirebbe. Le siepi sono curate più che a Versailles, son squadrate, son selvagge, son stondate, il leccio si sposa col bosso e tutti insieme proteggono l’ortensia. Ma non è vero amore, è cura delle virtù domestiche di queste piccole Buddenbrook in cui prosapie e dinastie affidano i loro bambini.

 

Al bagno Piero, altro avamposto top di Roma Imperiale, il titolare Roberto Santini impartisce lezioni alle classi dirigenti mentre pranziamo a bordo piscina (il Forte è città di piscine, la si potrebbe percorrere tutta saltando da una piscina all’altra, come nel Nuotatore di John Cheever, però qui spesso con acqua salata. Oltre il lungomare, con le sue nebbie e umidità serali e albe livide, un’aria da Miami malinconica, ecco piscine di tutte le fogge, di mosaico, di cemento, tonde. Ci si pranza molto attorno, ci si fanno molti bagni, del resto il mare non esiste).

 

A un certo punto Santini riprende un bambino Filippo che si è tuffato violando un divieto. “Fuori!” gli urla, e il piccolo Filippo che avrà alle spalle almeno fonderie e fondi di investimento, obbedisce immediatamente e dice “scusi”. Accanto a noi Massimo Moratti e la moglie mangiano un po’ mesti un roastbeef con delle patatine. Scusa, ma non arriva un papà lombardo a farti una faccia così? Santini risponde che no, anzi questo servizio è molto apprezzato, e si capisce che non usando più l’educazione repressiva di figli a Milano e Roma, il Forte adempie soprattutto a questa esigenza.

 

“Noi però non possiamo farlo” sospira l’architetto Maschietto, perché i papà russi reagiscono in un altro modo. Ma non solo russi: questa mattina, mentre si dormiva in un comodo letto forse già giaciglio della piccola Suni o del piccolo Gianni, al secondo piano, dal giardino fatato urla e strepiti di bambini inglesi, e subito si è pensato che manca proprio una miss Parker generazionale, quella di “don’t Forget you are an Agnelli”. L’urbanista racconta subito di quel piccolo russo, Sasha, che dotato di svitatore elettrico si è dilettato a svitare vite per vite una loro cabina, che poi è collassata per cedimento strutturale (prima aveva preteso di fare il barman, tra inservienti costernati e accondiscendenti).

 

Le cabine e le tende del Forte meriterebbero un trattato a parte: l’ombrellone non è quasi contemplato, la tenda, grande quanto un monolocale, normalmente è arredata con questi teli spugnosi che le dame acquistano all’Innovazione, negozietto del centro identico a uno di Malindi dove fanno questi teloni bordati a contrasto (blu con bordo verde, verde con bordo azzurro, e così via). Vanno molto anche le iniziali, ci sono molti negozi che vendono iniziali.

 

All’Augustus invece no, solo teli blu, per tutti. E non ci sono solo russi. Anzi parecchi arabi, e svizzeri francesi grazie al franco pesante, ma in spiaggia soprattutto al mattino quasi solo bambini. “Le mamme li mollano qua, poi quando diventeranno adolescenti cominceranno a odiare il posto, poi torneranno appena si saranno riprodotti”, dice sempre il Maschietto (con cognome-nemesi per il gestore di un posto per bambini milionari: “sono il 90 per cento dei nostri clienti, i bambini”).

 

Al bagno ex casa Agnelli, c’è tutto un indotto dietro questi bambini. A parte un principe giordano importantissimo per cui si vedono decine di agenti di Servizi esteri con walkie talkie, c’è il servizio di sicurezza in-house del bagno stesso, con funzioni di baby sitting avanzate. A un bambino che scaragna mortalmente, con una tata che gli parla in inglese ma senza riuscire a calmarlo, dopo un po’ arriva un bodyguard fortemarmino in-house e gli comincia a dire: “Andiamo, vieni, ti faccio vedere una bella cosa”, in inglese perfetto, e lo porta via, tra la riconoscenza di alcuni signori che parlano in francese e sbuffano leggendo però una biografia di Roman Abramovich.

 

Russi? Francesi? Svizzeri? Non è molto importante. Secondo Fabio Genovesi, che ha avuto parecchio successo con il suo “Morte dei Marmi” (Laterza), i russi ormai sono indistinguibili, “ormai sono mimetizzati, si sono molto raffinati, li chiamiamo russi ma sono in realtà di Gallarate”, dice al Foglio. Questi sembrerebbero proprio russi russi. Nella piscina color sabbia sguazza un piccolo bambino uguale a Putin, già con l’occhio ipertiroideo. Seduto su una sedia da regista, un signore con walkie talkie guarda fisso in una direzione, verso un altro che fa finta di bere una birra al bar, e si parlano col walkie talkie, siamo in piscina solo io e il piccolo Putin, e una signora asiatica con cappellino con scritto “Mykonos” in Swarosky, e non si capisce se è una tata o una dei servizi o della Gazprom.

 

Ai tempi di Suni e Gianni, pare di capire, era tutto più semplice. Su questa spiaggia non c’era naturalmente niente. Solo i loro capanni, e il ricovero per l’idrovolante di Edoardo, che veniva trainato in secca coi buoi apuani. La stagione cominciava quando arrivavano loro, a metà giugno, e arrivavano tutti i derivati di casa Agnelli. Per tornare, oggi si fa un sottopassaggio, privato.

 

L’unico di tutta la Versilia: negli anni Trenta, il Duce coltiva l’idea di fare un grande vialone imperiale che da Genova arrivi fino a Viareggio, e nemmeno gli Agnelli possono farci nulla e vengono espropriati (gli Agnelli che pure, si legge sempre in Vestivamo alla marinara, facevano una legge ad personam per far fare due anni in uno alla piccola Suni).

 

Il sottopassaggio è da 007, pare una linea C gentile però senza alcun degrado, anzi con un ingresso molto fiorito, e si evita questo viale dei Fori Imperiali che pare un simmetrico anche esistenziale a quello romano, con praticamente sole biciclette, e tricicli, e tandem, insomma il sogno del sindaco Marino, e l’incubo per ogni automobilista; ogni auto viene infatti guardata malissimo e vituperata, e Legnano e Bianchi da uomo e da donna sbucano da tutte le parti, contromano, sui marciapiedi, e anche i garage di hotel più affluenti hanno il loro reparto auto, dove mettiamo la nostra Audi A3 cabrio, e poi la rastrelliera delle bici. E non si capisce davvero la ragione per cui tutti questi cumenda faticano tutto l’anno per farsi il suv e poi corrono qui a nasconderlo per poi esibire la Graziella. 

 

[**Video_box_2**]Però rieccoci nel giardino di casa Agnelli: la famiglia lo comprò che era una pensione, e prima ancora dell’ammiraglio Morin. Aneddoto: a fine Ottocento Viareggio era già in overbooking, lo Stato cominciò a dare come tfr ai suoi militari pezzetti di terra e concessioni demaniali qui, dove non c’era nulla, solo grosse zanzare e paludi, con intuizioni anche immobiliari interessanti. La moglie dell’ammiraglio si chiamava Costanza, nacque così villa Costanza, poi diventata casa Agnelli, poi venduta frettolosamente nel 1969 per duecento milioni di lire, “a cancelli chiusi”, con dentro arredi e tutto. O, come si diceva al Forte, venduta “per colpa delle bollette del telefono”, perché era un casone impegnativo, arrivavano cugini che si fermavano tre mesi, nessuno stava dietro a niente, non si sapeva mai precisamente chi c’era, in questa casa di due piani che gli Agnelli avevano fatta restaurare al loro architetto Charbonnier ricavandone tre piani al posto di due (dice sempre il proprietario odierno). Ogni tanto saltano fuori dalle soffitte dei reperti: i quaderni dei compiti di Gianni, dei libri che ci stanno ancora in una bibliotechina coloniale al piano terra, ricoperti di carta di Firenze, forse di casa Agnelli o di casa Maschietto, che erano albergatori anche del Sestrière dunque della Real Casa Automobilistica

 

Restano arredi originali, come le tappezzerie a fiori di Sanderson o i pavimenti con le maioliche di Vietri. E’ un lusso favoloso e analogico, con porte con la chiave, niente led o domotica o resine o mosaici, un bel giardino dove fare colazione, tovaglioli di lino larghi un metro, servizio silente e umano. L’odore di nonni profumati e confindustriali negli armadi.

 

E poi sorprese architettoniche: dietro casa Agnelli c’è casa Pesenti, altra dinastia importante ma cementizia, e qui si scopre la storia di Augusta Pesenti, una Peggy Guggenheim di Bergamo Alta, che fece costruire negli anni trenta una sua villa all’architetto Borsani, di uno strepitoso stile modernista-balneare, una specie di Lloyd-Wright marinaro, e qui viveva in una comune di artisti, tra un suo ritratto di Cesarino Monti, il Boldini viareggino, che la ritrae come una marchesa Casati acquatica, e colonne di alabastro, e un giardino con sette ville di stile eclettico che oggi fan parte dell’hotel, e vengono affittate a cifre pazzesche a russi e arabi e svizzeri forse inconsapevoli di tanta storia architettonica (la Pesenti, poi, ne regalò una alla sua parrucchiera, forse per saldare un conto cospicuo o forse per eccentricità).

 

Nessuna di queste case pazzesche vede naturalmente il mare; del resto, come sosteneva già Camilla Cederna, al Forte una villa è “una casa di campagna con uso di mare”. Edoardo Nesi, premio Strega per un libro anche ambientato qui, “Storia della mia gente” (Bompiani), mi riceve in un altro avamposto fortemarmista, Orlando, antico spacciatore di pizzette e focaccine, con foto di antenati vestiti alla marinara alle pareti. In una scena del suo romanzo, il protagonista-alter ego va alla Capannina a bere un perfetto Martini, dando rigorosamente le spalle al mare, metafora alcolica di tutto. “Guarda le case, guarda le case”, mi istruisce Nesi. Intanto, dal focacciaio storico è tutto carissimo, la pizza viene sei euro e cinquanta al taglio, la fetta è piccola, tu vai lì e scrivi un ordine su un foglietto, lo infili in un uncino, poi chiamano il tuo nome con un altoparlante. “E’ rimasto tutto così. Non cambia mai niente”, dice Nesi estatico.

 

Dev’essere questo il segreto. Produrre ricordo e nostalgia a caro prezzo. Secondo Emiliano Correale, la nostalgia istantanea è alla base del successo del filone di Sapore di Mare, film vanziniano che molto ha contribuito al mito del Forte. Nel suo libro “L’invenzione della nostalgia: il vintage nel cinema italiano e dintorni” (Donzelli) Correale conferma anche l’analisi che davanti a una focaccina al bagno Piero mi fa Roberto Santini. “Quali sono i ricordi più belli? Quelli della gioventù. Quali sono i momenti migliori della gioventù? Quelli della vacanza”.

 

Forte dei Marmi, anche senza mare, coi suoi russi nuovi e antichi, serve a questo. A produrre ricordi per generazioni fortunate custodite tra le siepi. E cosa importa se c’è la vista. Tra lo stabilimento dell’Augustus e il bagno Piero c’è un mulino bianco, in mezzo. Tra i due c’è il bagno Piemonte, il più chic coloristicamente, sembra il quadro di Carrà in copertina all’edizione Oscar della Suni, però virato un po’ su Morandi; bianco e azzurro pallidissimi per le tende; è stato comprato due anni fa da Marilisa Barilla, mamma di Guido, che sul sito scrive entusiasticamente di averlo comprato “con l’intenzione di realizzare un mio sogno e condividerlo con gli amici e tutti quelli che verranno”. In realtà, dicono in paese, la signora cercava una casa con la vista mare: ma per vedere il mare, ha dovuto comprare un bagno.

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