Perché certi siti di news dovrebbero essere come una messa: senza commenti

Simonetta Sciandivasci
Fregarsene dell’equazione “essere commentabili = essere democratici”. La redazione di The Verge (magazine americano rigorosamente online), per esempio, ha comunicato ieri ai propri lettori che, per qualche settimana, non sarà più possibile commentare gli articoli che vengono pubblicati.

Immuni al commento libero sono rimaste solo le omelie: per questo andare a messa disintossica molto di più dei centrifugati di zenzero. Per fregarsene dell’equazione “essere commentabili = essere democratici”, tuttavia, non occorre un demanio spirituale.
La redazione di The Verge (magazine americano rigorosamente online), per esempio, ha comunicato ieri ai propri lettori che, per qualche settimana, non sarà più possibile commentare gli articoli che vengono pubblicati. “Preparatevi a un’estate fredda” è il sottotitolo del pezzo, in cui viene spiegato che la testata intende proteggere il proprio lavoro dal continuo bersagliamento dei commentatori indefessi, spesso dediti a turpiloqui del tutto inconcludenti, ma non irrilevanti ai fini di un libero esercizio dell’espressione.

 

Nessuno indosserebbe più una gonna se la buona educazione non proibisse di insultare le gambe che lascia scoperte: allo stesso modo, è impensabile che un giornalista scriva liberamente se sa che, una volta pubblicate, le sue parole fomenteranno un già abbastanza vivido sfogatoio.

 

Quando Lynette Scavo, in “Casalinghe Disperate” (serie tv di qualche anno fa), assiste a una messa per la prima volta e si alza in piedi per comunicare al prete (presbiteriano) i suoi dubbi sul sermone, viene liquidata con un invito al gruppo di studio sulla Bibbia del martedì, mentre alla sua amica Bree, seduta al banco di dietro, viene un attacco di panico  (le resta comunque abbastanza fiato per sussurrare, perentoriamente: “qui discutere è fuori luogo, Lynette”).

 

Pur dovendo tenere in piedi una comunità, una chiesa può permettersi di non essere democratica, essendo qualcosa di molto di più, cioè universale. In fondo, i giornali godevano, almeno fino a prima dell’avvento dell’online, del medesimo privilegio (non l’universalità, ma il poter prescindere dal dibbbattito indiscriminato, continuo, costante, a ritmo di viralità), però poi hanno provveduto meticolosamente a espropriarsene, perché l’imperativo categorico, ormai, non è solo creare una community, ma soprattutto coccolarla, ascoltarla, coinvolgerla e servirla fino a un rovesciamento dialettico in ragione del quale è la community stessa che detta le regole. Diversi anni fa, in “Come stare soli”, Franzen il sociopatico scrisse che la cultura mediatica ci fa ritenere, erroneamente, che un’incessante comunicazione produca una comunità. Ma può dirsi comunità – o community, se preferite – un agglomerato invisibile di individui che ritengono sia “interazione” accanirsi sui tasti di un computer reiterando anatemi a caso? Proprio oggi, nel suo blog su L’Espresso, Antonio Rossano cita – in margine a un articolo dove racconta lo sconforto che lo ha assalito dopo essersi reso conto che i commenti ai suoi pezzi dimostrano che, chi li formula, ha letto esclusivamente i titoli – lo studio di Chartbeat, un sito di statistiche e analisi di contenuti digitali, dal quale emerge che il 25 per cento dei lettori, su internet, legge, appunto, solo i titoli; il 44 per cento si perde per strada – o, meglio, per notifiche – e solo il 31 per cento arriva in fondo.

 

[**Video_box_2**]Sono numeri che non giustificano alcun diritto all’interazione.

 

“I commenti torneranno. Ci sarà sempre un altro party. La libertà dura per sempre”: così si chiude la lettera aperta di The Verge a lettori che, probabilmente, in consistente parte, non avrebbero diritto a essere ammessi nemmeno ai gruppi di studio sulla Bibbia del martedì.

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