Che cosa salvare tra i troppi libri che dovremmo leggere ma ci perdiamo

Alfonso Berardinelli
Almeno di una cosa non si può dubitare: il torinese Salone del libro occasioni di riflettere immancabilmente le offre. I tanti o troppi libri ci ricordano la nostra libertà, necessità o smania di scrivere.

Almeno di una cosa non si può dubitare: il torinese Salone del libro occasioni di riflettere immancabilmente le offre. I tanti o troppi libri ci ricordano la nostra libertà, necessità o smania di scrivere. I pochi libri che ognuno sceglie, perché davvero li leggerà, ci ricordano il desiderio di ciò che personalmente ci riguarda, può migliorare le nostre connessioni celebrali e dilatare la coscienza di ciò che succede.

 

In veste di critico (veste che non dà gloria) sono coinvolto in una iniziativa del Salone che richiede una certa attitudine a dire pochi “sì” e molti “no”. Visto che la critica letteraria non gode più di buon nome (anche il più imbecille degli scrittori è convinto che il critico sia invidioso di lui) ricordo qui, in estrema sintesi, che criticare vuol dire distinguere, selezionare, saggiare e assaggiare il sapore che hanno i libri.

 

La domanda dunque è questa: quali sono i quattro o cinque libri che negli ultimi anni non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano? Procedendo in ordine cronologico dal passato a oggi, comincerei con “Il teatro vivente”, poesie e racconti in versi di Bianca Tarozzi, pubblicato nel 2007 da Scheiwiller. E’ uno dei migliori libri di poesia scritti in vera lingua italiana e in veri versi che siano apparsi nell’ultimo decennio. Bianca Tarozzi naturalmente ha una cerchia di estimatori e ammiratori (l’attrice Lella Costa per esempio è una sua inflessibile fan) ma gli ambienti e ambientini accademici e poetici spesso la sottovalutano o la ignorano. Evidentemente non la leggono perché è leggibile, e questo crea imbarazzo. Oppure, se la leggono non la capiscono. Da tempo succede che quando un poeta sa scrivere e si può leggere, i professori si allarmano, non sanno che dire, non devono giustificare e spiegare niente: una cosa, questa, che li manda in panico. Hanno paura di perdere il lavoro, il ruolo, l’autorità e la loro imprescindibilità di interpreti. Tarozzi scrive storie e ritratti di donne in endecasillabi e settenari di una tale espressiva scioltezza che viene subito voglia di leggerli a voce alta. Dopo Gozzano, nella narrazione in versi non si era visto niente di simile. C’è qualche addottorato critico che se ne sia accorto?

 

Il secondo libro che voglio ricordare lo ha scritto Giorgio Ficara, è uscito da Einaudi nel 2010, il suo titolo è “Riviera. La via lungo l’acqua”. Quanto a genere letterario è uno dei libri più misteriosamente originali. Ficara appare più frequentemente come critico letterario. In questo caso ha scritto invece un libro di saggistica narrativa sulla sua amata e profondamente esplorata Liguria, pubblicato nella collana “Frontiere”, una delle più innovative e sperimentali dell’Einaudi. Recensendo il libro su Repubblica, Paolo Mauri lo definì con audace pertinenza “un’inchiesta filosofica” perché si tratta della filosofia o antropologia o storia di un luogo. Proprio nella prima pagina Ficara si chiede se il luogo di cui sta per parlare esiste ancora: “I sociologi dicono che i luoghi oggi non esistono più. Io direi che non si vedono più. Si sono nascosti in un mondo irreale, sembrano tutti lo stesso non-luogo. E oggi più che mai è necessario guardarli, restituirli a se stessi”. Il libro è dunque una lezione sul guardare, una lenta, metodica iniziazione all’arte del vedere, con una penetrazione stratigrafica che fa emergere storia e storie dentro le cose visibili. “Riviera” è un esempio di prosa italiana, che presuppone i nostri maggiori saggisti: Cecchi, Longhi, Montale, Praz.

 

Uno studio sui rapporti fra “Karl Kraus e Shakespeare” (Quodlibet) lo ha pubblicato nel 2012 una giovane germanista, Irene Fantappiè, che con Kraus sembra essere nata, perché non aveva ancora venticinque anni quando cominciò a tradurlo e commentarlo. Kraus non sapeva l’inglese, ma usò Shakespeare montando e manipolando per i suoi scopi di satirico e pamphlettista teatrale diverse traduzioni esistenti. Scrittore sommo di aforismi, regista di se stesso, attore in scena capace di ipnotizzare il pubblico (come notò Canetti allarmato) Kraus è studiato qui nei suoi legami con Shakespeare e questo lo mostra al lavoro nella sua officina letteraria: un creatore di novità per via di citazioni, traduzioni, riusi e bricolage. Oggi che tutti immaginano di creare, Kraus fomenta un dubbio: e se l’artista creatore fosse un banale illuso?

 

[**Video_box_2**]Il quarto libro porta David Hume, il grande illuminista scozzese, a fare i conti con le filosofie del Novecento. Ci fa da guida Alessio Vaccari con il suo “Le etiche della virtù” (Le Lettere, 2012). E’ un libro che ogni persona colta dovrebbe leggere. A quanto pare, l’etica e i suoi fondamenti ci riguardano da vicino e Hume fa capire una cosa molto semplice di cui da mezzo secolo in Europa continentale si è sentito parlare poco. Non è vero che “se Dio è morto, tutto è permesso”: questa idea apre la strada al nichilismo, facendo dimenticare che il comportamento morale non ha bisogno di essere dedotto da entità e principi trascendenti. Seguendo Hume una tale logica viene rovesciata: il comportamento morale ha una radice simpatetica e relazionale, se mi comporto bene, non lo faccio per ubbidire a qualcosa di superiore, ma per simpatia e rispetto verso gli altri.
Mario De Quarto ha pubblicato un anno fa un libro che onestamente e per pura assenza di vanità letteraria, si fa amare: “Speravamo nei miracoli. Il dopoguerra in un rione di Roma” (Marsilio). Rispetto all’aristocratico “Riviera” di Ficara, quello di De Quarto, romano nato nel 1953 da una modesta famiglia del rione Ponte, è un libro in “sermo humilis”. Fa pensare alle più belle pagine di Carlo Levi sul popolo di Roma. Siamo nel cuore più antico della capitale, quello dei romani nati a Roma (gli altri sono ormai maggioranza) e quello che l’autore ha visto e vissuto nella sua infanzia è un salto “dal feudalesimo alla società dei consumi”. De Quarto è un geografo e, come Ficara, uno storico dei luoghi. Luoghi, ma soprattutto persone, ambienti sociali e morali. Leggendo un libro come questo, si capisce che Hume aveva ragione. Senza simpatie umane non c’è morale.

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