La giornata mondiale del libro, ovvero del perché smettere di leggere

Simonetta Sciandivasci
Davvero è l’apocalisse liberarsi di certi orrendi volumi? Due cose, nella storia dell’umanità, sono state meno rare degli scrittori ricchi e dei lettori in maggioranza sui non lettori, ma lo sconcerto per entrambe (soprattutto per la seconda) è una reazione tutta contemporanea.

Roma. La lettura è un po’ come l’amore: più se ne parla, meno se ne fa. Al pessimismo di operatori culturali e diversamente scrittori, oggi tutti impegnati a celebrare la giornata internazionale del libro, sfugge questa inversa proporzionalità. Sarà forse perché è storia, sarà forse perché invecchia, ma il libro sembra destinato all’estinzione, almeno dal ’96, quando l’Unesco istituì la ricorrenza, scegliendo il 23 aprile perché è il giorno in cui convergono gli anniversari della morte di Shakespeare e Cervantes – nessuno deve essersi ricordato dell’istituzione della Gestapo, il 23 aprile del ’33. Allora, all’Unesco non immaginavano che, meno di un ventennio più tardi, ci sarebbe stata una giornata mondiale per qualunque cosa (quest’anno il #popolodelweb ha patrocinato quella del calzino spaiato), quindi gli intenti dei promotori erano senza dubbio nobili e nobilitanti.

 

Due cose, nella storia dell’umanità, sono state meno rare degli scrittori ricchi e dei lettori in maggioranza sui non lettori, ma lo sconcerto per entrambe (soprattutto per la seconda) è una reazione tutta contemporanea. Oggi, in Italia, il 23 aprile è l’occasione per rifocillare il memoriale, a tratti compiaciuto, di un’agonia che trova ampio spazio nel dibattito culturale, in una qualunque data a caso del calendario: la diffusione dei libri è tra le più basse d’Europa (42,2 per cento contro il 71,8 per cento della Svezia); le librerie diventano bistrot; più della metà degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno. Molto più degli eventi che oggi imperversano nella penisola (flash book – non chiedeteci cosa sia – bookcrossing, reading a cielo aperto, #ioleggoperché e varie forme di stalking da animazione Alpitour), quello che è interessante rilevare è la posizione media degli intellettuali (“che è già parola da querela”, come dice il nostro amato Buttafuoco). Una posizione tutta arroccata sull’apocalisse: la gente non legge. Che novità.

 

Qualche giorno fa, sul sito di Internazionale, la scrittrice Nadia Terranova raccontava di essere stata disturbata, in treno, dalla sua vicina di posto, imperterrita conversatrice, mentre cercava di leggere un romanzo. Per inibirla, le è bastato mettersi a smanettare con lo smartphone: “Ora che mandavo messaggi, ora sì che ero impegnata in un’attività che riconosceva e rispettava”, ha scritto. Da questa considerazione, Terranova si è collegata a “Lettori si cresce” di Giusi Marchetta (Einaudi), riconoscendone e rispettandone il valore. A parte il margine discrezionale delle operazioni induttive, la scrittrice ha ragione: si tratta davvero di un buon libro. Innanzitutto e soprattutto perché è un lavoro che sfata il mito dell’estinzione della lettura: la gente legge eccome (soprattutto online), sono i romanzi, invece, a essere contemplati con fatica. L’uovo di colombo, sottolinea Terranova, sta nel fatto che Marchetta “non impone mai la lettura come atto doveroso o utile in assoluto”. E si chiede: “quando abbiamo smesso di discutere e contestare il contenuto dei romanzi e ci siamo messi a santificarne l’involucro?”. Amen! Evviva! I libri non sono testi sacri, né sacramenti: non sono obbligatori e non assicurano il paradiso. Nessuna giornata mondiale e nessuna pubblicità progresso li salverà, soprattutto se non s’inverte l’idea per cui i libri educano: ai libri si deve educare. Chi deve farlo? Come? Gli scrittori, innanzitutto. C’è una lacuna nel bell’articolo di Internazionale e la si ritrova nella maggior parte delle considerazioni, sul tema, di intellettuali e affini: la domanda “sto facendo un buon prodotto?”, la stessa cui, chiunque si immetta sul mercato, è obbligato a rispondere.

 

[**Video_box_2**]Sempre su Internazionale, una decina di giorni fa, Nicola Lagioia, quest’anno candidato al premio Strega con “La Ferocia” (Einaudi), ha scritto un articolo-trattato, anch’esso molto critico con la giornata internazionale del libro et similia, in cui, prima di addentrarsi in una mappa delle librerie più fiche e combattive del paese, affibbiava la colpa del crollo dei lettori alle istituzioni, incapaci di fare i conti con il paese reale, che pullula di agenzie, associazioni, fondazioni, prontissime a offrire le proprie competenze per cooperare nel salvataggio dei libri. Lagioia, così come i cittadini del paese reale di cui parla, teme delle campagne pro lettura il loro ridurre i libri a beni di consumo qualsiasi, addirittura da regalare ai passanti (oggi verranno distribuiti gratuitamente, grazie alla campagna #ioleggoperché, 240 mila copie di 24 romanzi). Ciò che Lagioia non teme abbastanza, forse, è che i primi responsabili dello svilimento del contenuto dei libri siano quelli che li scrivono. Da temere sarebbe anche che le ciarle sulla lettura facciano la fine degli aperitivi, che non invogliano più al pasto perché sono diventati il pasto.

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