Il senso del cool per l'evoluzione

Annalena Benini
La sopravvivenza della specie sta in un paio di vecchi jeans. Ci struggevamo di desiderio e ci struggiamo ancora per cose non necessariamente troppo costose, ma indispensabili al nostro riconoscimento sociale, all’idea di sopravvivenza contenuta nella zona prefrontale del cervello, dicono gli studiosi.

Nessuno ha dimenticato le ossessioni giovanili verso ciò che considerava cool e doveva a ogni costo possedere: anfibi dottor Martens, scarpe Clarks, giubbotti di pelle consunti, l’eskimo, la borsa di Tolfa, i Levi’s, a volte anche i jeans Wrangler, dipende dalle stagioni, dai decenni dell’Io e dalle possibilità economiche. Ci struggevamo di desiderio e ci struggiamo ancora per cose non necessariamente troppo costose, ma indispensabili al nostro riconoscimento sociale, all’idea di sopravvivenza contenuta nella zona prefrontale del cervello, dicono gli studiosi (ricordo con quanta ostinazione alla fine degli anni Ottanta ho chiesto per mesi e infine ottenuto una giacca verde inglese da cacciatore, con una tasca laterale dove riporre le lepri che non avrei mai cacciato né mangiato: fu una felicità intensissima e prolungata, e l’inizio di un inverno pacificato).

 

Questo appagamento, questa sensazione di sicurezza data da certi oggetti o vestiti (o da un biglietto per un concerto) non ha a che fare con il materialismo ma con il cool. Che è una categoria dello spirito, seppur creata dal capitalismo (è emerso negli anni Cinquanta) e ha una funzione importante nella soddisfazione di un bisogno umano essenziale: essere riconosciuti e rispettati dagli altri. Il nostro cervello contiene una calcolatrice sociale che tiene traccia di quello che immaginiamo gli altri pensino di noi – e il risultato di questi calcoli sociali è che proviamo sensazioni come l’orgoglio e la vergogna. L’orgoglio di corrispondere, pedalando su quella vecchia bicicletta, a ciò che riteniamo di essere. “Abbiamo scoperto che gli oggetti sono fondamentalmente estensioni di noi stessi che riflettono ciò che siamo, e noi li usiamo per legare con altri che condividono i nostri stessi valori”. Quelli pazzi per l’iPhone, i nostalgici del BlackBerry, o il bisogno assoluto di usare solo quel computer Apple. Secondo un’équipe americana di neuroscienziati, esperti di marketing e politologi, a vario titolo interessati al trionfo del cool, “è questa la chiave per la sopravvivenza attraverso la storia evolutiva dell’umanità: per sopravvivere si ha davvero bisogno di alleati, amici e partner”. E le alleanze vengono costruite sulle somiglianze, sull’attrazione per ciò che ci riguarda. Anche sulla condivisione di ossessioni. Così in questo saggio appena uscito in America, “Cool: How the Brain’s Hidden Quest for Cool Drives Our Economy and Shapes Our World” (il titolo è già un postulato: la ricerca nascosta del cool guida la nostra economia e condiziona il nostro mondo), scritto da un filosofo e una scienziata, vengono distrutti un po’ di miti anticonsumistici: il consumismo non ci rende felici, il consumismo si basa su falsi bisogni instillati in noi perché è contrario alla nostra vera natura, il consumismo divora la vita pubblica, nel consumismo si tratta semplicemente di “roba”.

 

[**Video_box_2**]Il consumismo, inteso come ricerca del cool che ci rispecchia (una maglietta slabbrata, un film, una canzone, un romanzo, il giradischi cercato disperatamente al mercato delle pulci, l’impermeabile di Humphrey Bogart) costruisce la nostra identità sociale e la felicità, “stimola la capacità di apprendere e di essere non convenzionali e innovativi”, riflette quello che vogliamo che gli altri pensino di noi. E’ un inganno, spesso, un’esagerazione, una frivolezza, anche una forma di devozione. Muove l’economia, condiziona il mondo e non si applica soltanto alle cose e ai marchi, ma anche alle persone. Quelle che riteniamo cool ci ispirano grande fedeltà. Ma succede anche che la zona prefrontale del nostro cervello, all’improvviso, cambi idea: e allora chi non è più cool viene scaricato, come i jeans a zampa d’elefante.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.