D&G e il paradosso della lapidazione virtuale in nome dei diritti civili

Francesco Cundari
L'eco mondiale dell'intervista di Dolce e Gabbana a Panorama si deve forse meno al merito (la procreazione assistita) e più al mezzo (i social network) su cui la polemica si è immediatamente trasferita. E, di conseguenza, più alla forma che alla sostanza - di Francesco Cundari

L'eco mondiale dell'intervista di Dolce e Gabbana a Panorama si deve forse meno al merito (la procreazione assistita) e più al mezzo (i social network) su cui la polemica si è immediatamente trasferita. E, di conseguenza, più alla forma che alla sostanza.
Fatto sta che una frase di Domenico Dolce ("non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici") ha scatenato un'onda di reazioni indignate davvero globale. A lanciare l'hashtag di guerra - "#BoycottDolceGabbana" - è stato Elton John, seguito da un'infinità di celebrità da milioni di follower ciascuna: da Ricky Martin (11,8 milioni) a Courtney Love (1,2). In meno di ventiquattro ore, da tutto il mondo piovevano incitamenti non solo a non comprare, ma addirittura a bruciare sul rogo i vestiti (e per fortuna solo quelli) dei due stilisti. Nella gara a chi scagliava la pietra più grossa, assieme a un certo effetto passerella dell’indignazione, non è mancata la confusione. Così sul Corriere della Sera, nella sfilata delle star decise a procedere all'autodafé del proprio guardaroba, è finita pure l'incolpevole Ornella Vanoni (a unirsi al coro era stato infatti solo il fake del suo profilo twitter).

 

Non c'è bisogno di condividere le sgradevoli frasi di Domenico Dolce per cogliere la sproporzione tra l'offesa e la reazione. Un divario che ricorda tanti casi simili, che negli ultimi anni hanno visto coinvolti perlopiù individui (fino al giorno prima) perfettamente anonimi, colpevoli più di insensibilità e cattivo gusto che di razzismo, più di superficialità e ignoranza che di xenofobia, omofobia o sessismo. In proposito, il caso di Justine Sacco è diventato emblematico. Due anni fa aveva fatto una stupida battuta mentre si imbarcava su un aereo ("Sto andando in Africa. Spero di non prendere l'Aids. Sto scherzando. Sono bianca!"). Avendo appena 170 follower, probabilmente pensava, come la maggior parte delle persone che parlano male dei vicini di casa su facebook, che la cosa sarebbe morta lì. Invece il tweet è stato rilanciato da un giornalista e subito è diventato oggetto di una campagna che ha costretto l'azienda per cui lavorava a fare dichiarazioni inequivoche sulla sorte che attendeva la sua dipendente non appena fosse scesa dall'aereo. Così il gioco si è fatto ancora più crudele e uno degli hashtag più popolari è diventato #HasJustineLandedYet ("Non è ancora atterrata Justine?"). Per capire le dimensioni del fenomeno è sufficiente, ancora oggi, mettere il suo nome su google.

 

[**Video_box_2**]Di sicuro Dolce e Gabbana hanno più strumenti di Justine Sacco per difendersi, ma è un fatto che se oggi digitate su google il nome di una qualsiasi delle celebrità sopra citate, la prima notizia che esce è proprio quella. "Tutta questa campagna è nata on line, sul nulla... per volontà di un gruppo di attivisti gay", dice al Corriere della Sera Stefano Gabbana. E certo è improbabile che Elton John avrebbe letto l'intervista su Panorama se qualcuno non l'avesse tradotta e - soprattutto - rilanciata in rete.

 

Il punto, dunque, non è solo la sproporzione tra colpa e punizione. Il punto è se quello delle campagne di demonizzazione sia uno strumento come un altro a disposizione delle minoranze per le loro battaglie civili. O se in tal modo, con l’enorme diffusione e l’incredibile potenza di fuoco raggiunta ormai dai social network, non si rischi di trasformare la società della comunicazione in tempo reale in un incubo orwelliano, in cui qualunque violazione del codice linguistico socialmente accettato è punita con la lapidazione virtuale e l'emarginazione sociale. Certo è che sarebbe un bel paradosso, se un simile esito fosse raggiunto in nome dei diritti civili.

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