Le svastiche e lo strano rapporto col passato di Gravina

Antonio Gurrado

Il perimetro dello stadio comunale imbrattato prima di una partita contro il razzismo. Ecco perché il gesto va interpretato alla luce del legame locale con la storia e coi suoi simboli

La tentazione è cedere alla facile battuta e lasciar cadere che appena di là dal confine, in Basilicata, c’è Matera capitale della cultura mentre al di qua, dove la Puglia già diventa lucana, c’è Gravina capitale dell’ignoranza. Né si può nascondere la sorpresa, l’ironia forse, allo scoprire che mani ignote hanno disegnato sessanta svastiche sul perimetro dello stadio comunale proprio in occasione della partita che, da calendario, era ispirata all’antirazzismo sulla scia della giornata della memoria; per quanto poi l’ottuso accanimento grafico dei teppisti sia stato ribaltato a favore del messaggio, con le svastiche cancellate da cuoricini blu e la fascia di capitano eccezionalmente consegnata al centromediano camerunense Jean Mbida. La notizia, che ha travalicato i confini delle cronache locali destando scandalo unanime nel mondo del calcio e nella politica, conoscendo il contesto può però essere interpretata alla luce del locale rapporto con la storia e coi suoi simboli.

 

Gravina ha un’affezione ben radicata nei confronti del passato, che si diffonde anche a livello popolare benché con una certa confusione cronologica. È una città che ama guardare all’indietro e in cui ogni anno viene portato orgogliosamente in processione il gonfalone cittadino, che reca il simbolo della spiga e dell’uva da cui la città stessa trae nome; si vocifera che Federico II di Svevia in persona, in occasione di un brindisi, se ne uscisse col distico Grana dat et vina / urbs opulenta Gravina. Cittadina dunque la cui identità si àncora a un medioevo mitologico incardinato sull’atto atavico del mangiare e bere, Gravina è circondata dal passato al punto che la facciata della cattedrale si affaccia non dal versante del centro, ossia dello sviluppo urbano, bensì sul limitrofo crepaccio – sulla gravina, appunto – contornato da grotte sospese a metà nella memoria collettiva, un po’ habitat rupestre primitivo, un po’ rifugio dei gravinesi assaliti dalla torma saracena nel X secolo. La storia locale costituisce da sempre il mezzo più sicuro per bestseller intra moenia, tanto che le novissime ristampe delle “Notizie storiche sulla città di Gravina” dell’insigne medico Domenico Nardone vengono a scadenze regolari acquistate e collocate in bella vista in tutte le case del paese nonostante che il libro risalga al 1922 e, nei contenuti, non vada oltre l’Unità d’Italia.

 

Il passato è dunque a Gravina presenza fiabesca, narrazione reiterata che accomuna le classi colte alle illetterate rinsaldando l’identità collettiva entro contorni sfumati, le cui costanti sono particolarismo e rimpianto. Esempio: dal 1724 al 1730 fu Papa fugace e non so quanto significativo Benedetto XIII, della locale famiglia nobile degli Orsini. La sua statua fu posta una ventina d’anni fa sulla piazza che costeggia la cattedrale, all’inizio di una complessa operazione di riabilitazione che ha portato una delegazione locale a postularne la santità in Vaticano e che, parallelamente, ha incrementato a livello popolare – dalla segnaletica stradale alla numismatica alle informali istruzioni che i gravinesi espongono ai loro amici forestieri in visita – un’interpretazione che fa dell’elezione di un concittadino al soglio di Pietro il culmine del prestigio storico di Gravina. Nei secoli successivi a cotanto avvenimento incredibile eppur vero, si sottintende, Gravina è declinata diventando sempre più periferica nella storia (sorpassata dalla rivale Altamura e, ora che va di moda, perfino da Matera) mentre la storia è degenerata procedendo secondo un corso che la allontanava sempre più dai valori schietti ed essenziali intrinseci alla più o meno immaginaria Gravina del passato. Incarnazione preclara dei bei tempi andati è il corteo storico – in abito medievale ma, poiché sfila anche un finto Papa, facilmente equivocabile dal volgo – che decora la locale fiera agricola le cui origini risalgono al 1294 e in cui i cittadini più in vista possono finalmente sfilare con abiti da cortigiani e nobildonne quali indubbiamente si sentono nell’animo, a dispetto della contemporaneità in cui sono esiliati.

 

Cosa c’entrano le svastiche? C’entrano perché – di là dalle responsabilità individuali di chi le ha effettivamente vergate, su cui indaga la Polizia – queste indegne decorazioni vanno probabilmente interpretate alla luce di questo rapporto col passato. Il rimpianto, anzitutto. Essendo l’approccio naturale con cui la storia di Gravina viene indagata, è possibile che nella mente bacata dell’autore sia parso naturale contrapporre un simbolo dell’altrieri, senza manco interrogarsi sul suo senso, a un progresso che non condivide e cui intende opporsi per partito preso. C’è da aspettarsi che ora il suo animo sia diviso metà fra lo stupido orgoglio di essere diventato materia di dibattito nazionale (vulgo: essere stato menzionato in tv) e la sincera sorpresa che il suo gesto abbia avuto risalto ben al di là dal dispettuccio circoscritto che doveva avere in mente. Quindi, il localismo. Subito dopo l’11 settembre, qualche anno fa, interrogai personalmente sull’evento alcuni giovani gravinesi di bassa estrazione ricevendo come commento più frequente una sostanziale indifferenza, radicata sul fatto che gli aerei non si erano schiantati lì nei pressi ma in un lontano continente. La rilevanza degli eventi viene misurata dunque in termini di vicinanza non tanto storica quanto geografica e, ai teppisti delle svastiche, il nazismo è apparso probabilmente distante e innocuo come qualcosa che non potesse riguardarli di là della bravata, magari polemicamente rivolta contro il sindaco o la squadra di calcio gialloblu, chi lo capisce è bravo. A riprova che, nelle sacche profonde e neglette dell’Italia, non basteranno mille giornate a preservare la memoria se prima non si spiega bene che cosa sia la storia.

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