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La grande bufala di Roma senza acqua

Claudio Cerasa

Come è stato possibile trasformare un piccolo problema di gestione idrica in una catastrofe nazionale? Il ruolo dell’allarmista collettivo, il tabù dell’efficienza e l’incapacità di distinguere le emergenze false da quelle vere. Una controstoria

L’articolo 658 del codice penale italiano prevede una tipologia di reato molto particolare utile da mettere a fuoco per sviluppare un ragionamento che riguarda un tema che in un modo o in un altro negli ultimi giorni è arrivato alle orecchie di ciascun italiano: il devastante allarme siccità in Italia, la grande emergenza idrica nella capitale, il rischio imminente che Roma rimanga improvvisamente con due gocce d’acqua. L’articolo 658 del codice penale c’entra con la storia dell’allarme acqua a Roma – allarme arrivato fino alle colonne del New York Times (“Scarce rain and chronically leaky aqueducts have combined this summer to hurt farmers in much of Italy and put Romans at risk for drastic water rationing as soon as this week”) – per una ragione che capirete immediatamente leggendo la tipologia di reato prevista da questo articolo: “Chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti e persone che esercitano un pubblico servizio, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da euro 10 a euro 516”.

 

La tipologia di reato che vi abbiamo descritto è quella del “procurato allarme” e dopo aver seguito con interesse il dibattito di questi giorni relativo al rischio che Roma che si trasformi in una provincia del Burundi verrebbe voglia di organizzare una class action contro il circo mediatico e politico specializzato a inventare allarmi che non ci sono e a spostare la propria attenzione sulle emergenze false dimenticando di mettere a fuoco le emergenze vere di una città. E così, dopo la fiction di Mafia Capitale, il drammatizzatore collettivo si ritrova di fronte ai propri occhi un’altra finta emergenza su cui costruire pagine e pagine di giornale: il falso dramma dell’acqua a Roma.

 

La storia è ormai nota ma vale la pena ripercorrerla rapidamente per spiegare come un piccolo, ordinario e in fondo prevedibile problema di gestione idrica, sommato a una leggera caduta di precipitazioni negli ultimi anni (nel 2016, dati Ispra, si è registrato circa il sei per cento in meno di precipitazioni rispetto agli ultimi trent’anni), sia stato trasformato nell’epifenomeno di una imminente desertificazione subsahariana della Capitale italiana. La storia è questa. Un lago molto importante a pochi passi da Roma, il lago di Bracciano (164 metri di profondità), negli ultimi dodici mesi si è abbassato di circa novanta centimetri (più o meno quattro volte la grandezza del palmo della vostra mano) per ragioni legate alle temperature elevate e alle piogge in diminuzione. Da quel lago, Acea, l’azienda municipalizzata che gestisce, tra le altre cose, il servizio idrico di Roma, preleva 86 mila metri cubi, più o meno 1,5 millimetri, al giorno. La quantità di acqua prelevata da questo lago rappresenta, dice Acea, l’8 per cento del fabbisogno della Capitale. Roma ha 2.800.000 abitanti. L’otto per cento significa che l’acqua di Bracciano copre il fabbisogno di 224 mila romani. Fin qui tutto facile.

 

La scorsa settimana, venerdì, la regione Lazio, che ha il compito di autorizzare i prelievi dal lago, decide di bloccare i prelievi dal lago di Bracciano a partire dal 28 luglio e fino al prossimo 31 dicembre. Il lago di Bracciano copre, come abbiamo detto, il fabbisogno di 224 mila romani ma Acea risponde al provvedimento del presidente della regione dicendo che l’ordinanza può creare disagi per il 50 per cento dei romani, ovvero “1,5 milioni di cittadini”. L’Acea – il cui primo azionista è il comune di Roma, dunque Virginia Raggi, la quale ha cambiato il management della municipalizzata giusto pochi mesi fa, ovvero lo scorso 27 aprile, regalando la guida dell’azienda a un avvocato di fiducia dei grillini, Luca Lanzalone (quando i grillini fanno spoil system la perversa “lottizzazione” diventa virtuoso “avvicendamento”) – lancia dunque l’allarme del rischio desertificazione della Capitale scaricando sulla regione la responsabilità della tropicalizzazione e dell’assetamento di Roma. L’allarme è stato lanciato davvero ma nessuno si preoccupa di spiegare che è in realtà del tutto falso: a Roma nessun romano rimarrà senz’acqua per il semplice motivo che per risolvere l’emergenza lago verrà fatta arrivare un po’ di acqua in più da un altro acquedotto che si chiama Peschiera-Capore

 

Se le cose andranno così sarà un piccolo capolavoro: per una settimana l’Italia intera avrà descritto la Capitale sull’orlo di un collasso senza fine che semplicemente non ci sarà. Questa è dunque la storia che emerge in superficie. Ma a voler scendere di qualche millimetro sotto il livello dell’acqua, oooops, la storia del falso allarme idrico a Roma svela una serie di microstorie che ci dicono molto sulla facilità con cui nel nostro paese ci si concentra sulle emergenze false e ci si dimentica regolarmente di segnalare le emergenze vere. E’ la storia di Roma, ma in realtà, in piccolo, è la storia d’Italia: ci si occupa per anni di un problema che non c’è (come per esempio la mafia a Roma) e ci si dimentica di parlare per anni del vero problema che c’è (come per esempio il dramma dell’inefficienza). E nella storia dell’acqua di Roma ci sono alcuni spunti di riflessione che vale la pena approfondire: l’intramontabile e ridicolo feticcio dell’acqua pubblica, l’ampia discrezionalità concessa alle procure sui reati ambientali, la difficoltà con cui un’azienda partecipata da un comune mette al centro della sua agenda il concetto di efficienza, l’incapacità della politica fondata sul falso mito dell’onestà di mostrare semplicemente una piccola e sana dote di competenza.

 

Punto numero uno: i tempi. Da quanti mesi è noto che a Bracciano l’acqua si stava progressivamente abbassando? Più o meno dall’inizio dell’anno. Da quanti mesi il comune di Roma era al corrente del problema? Più o meno dall’inizio dell’anno. Cosa avrebbe potuto fare il comune di Roma per risolvere il problema? Due cose. In qualità di sindaco primo azionista di Acea, Virginia Raggi avrebbe potuto imporre al management di richiedere ad Acea interventi sull’efficienza del servizio idrico (la dispersione dell’acqua a Roma si aggira tra il 41 per cento, fonte Acea, e il 44 per cento, fonte Istat, a fronte di un 38-35 per cento di media nazionale, e i romani consumano 300 litri di acqua al giorno contro i 245 della media nazionale). In qualità di presidente della Conferenza dei sindaci e dei presidenti dell’ambito Territoriale (Raggi, di diritto, è capo dei sindaci della provincia di Roma, e in quel ruolo ha i poteri per determinare la politica di gestione dell’acqua nella provincia) avrebbe potuto attivare una serie di misure per trovare una soluzione alternativa (che si troverà ora, dopo l’allarme procurato e dopo un crollo di Acea, che ieri ha perso l’1,7 per cento in Borsa). Nulla di questo è stato fatto – il sindaco di Roma, modello di buon governo dell’Italia a cinque stelle, ha però fatto un’ordinanza meravigliosa per consentire fino a settembre il consumo di acqua per “soli scopi personali e domestici”, per non incorrere in una multa dei vigili urbani, che sulle auto in doppia fila poco possono ma sul controllo dei rubinetti potrebbero dare soddisfazioni – e la grande partita dell’efficienza in una azienda municipalizzata è stata così trasformata in uno scazzo di quarta categoria in cui il comune di Roma (e la sua controllata) ha accusato la regione di aver combinato un disastro, mettendo improvvisamente a rischio “1,5 milioni di romani”. Nessun ragionamento sul perché Roma ha una dispersione di acqua superiore alla media d’Italia e sul perché le aziende partecipate dal pubblico non riescono a essere incisive sul piano dell’efficienza. Nessun ragionamento sul fatto che da anni a Roma tutti sanno che per prevenire qualsiasi problema idrico sarebbe sufficiente allargare la capienza di un acquedotto (il Peschiera-Capore) e tutti sanno che quell’acquedotto non è stato mai allargato perché tutti gli azionisti di maggioranza di Acea non hanno mai avuto il coraggio di sfidare il partito degli ambientalisti all’amatriciana pronto ad accusare il comune di aver organizzato un regalo ai privati di Acea. Nessun ragionamento sul punto cruciale, ovvero che la dispersione idrica in Italia è legata anche al fatto che nel 2011 un ridicolo referendum ha cancellato la prospettiva di una liberalizzazione del servizio idrico che avrebbe permesso l’ingresso nel settore di investimenti e di innovazioni. Si parla di Roma, ma in realtà si parla d’Italia.

 

Dal comune ora ci spostiamo in regione: perché mai, si dirà, il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha scelto di interrompere “improvvisamente” i prelievi dal lago di Bracciano, rifiutandosi di concedere più tempo ad Acea per trovare una soluzione alternativa? Diversi osservatori dicono che sarebbe stato sufficiente aspettare qualche settimana per far tornare la situazione alla normalità: ad agosto la città che si svuota avrebbe permesso di razionalizzare in modo naturale, come accade ogni estate, il fabbisogno quotidiano di acqua e a settembre, con qualche accorgimento, la situazione sarebbe tornata alla normalità. Eppure la regione ha agito in modo brusco. Perché? In pochi lo hanno raccontato ma il problema vissuto dalla regione Lazio è un problema di fronte al quale si trovano continuamente diversi amministratori (e spesso diversi imprenditori) costretti ad agire non sulla base del semplice buonsenso ma sulla base di un’agenda che sui temi ambientali (e non solo) viene dettata direttamente dalle procure. Poche settimane fa un gruppo di attivisti e politici locali ha presentato un esposto alla procura di Civitavecchia per disastro ambientale e ha chiesto ai magistrati di valutare a ogni livello “le responsabilità in ordine alla inquietante condizione ambientale in cui si trova l’ecosistema del bacino lacustre di Bracciano a rischio di ulteriori mutamenti e conseguente disastro ambientale”. Nell’Italia del garantismo che diventa regolarmente gargarismo, un’indagine per disastro ambientale è sempre difficile da gestire e così la regione ha scelto di accelerare e di drammatizzare per evitare di ritrovarsi sulla coscienza troppi pesci morti tra le acque di Bracciano (il disastro ambientale è prima di tutto questo). Tutto questo non è stato discusso, e non è stato notato, e così la falsa emergenza dell’imminente desertificazione di Roma è stata trasformata in una calamità naturale. Non essendo una vera emergenza, però, l’emergenza passerà e forse neanche ci sarà. E come capita quando si parla di finte emergenze, una volta passata l’emergenza vera si tornerà a fare quello che si faceva prima: ci si occuperà della fuffa, si drammatizzeranno le stupidaggini e si continuerà a fischiettare di fronte ai veri problemi di una città.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.