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Po' con l'accento e bestemmie. Cronaca di un esame orale al Concorsone

Mario Leone
Un esame è sempre un esame. Ci si scambia auguri, si chiedono informazioni, si rivedono persone incontrate anni prima. Corro tra un corridoio e un altro. Incrocio un concorrente in preda a una crisi di nervi. Noto in alcune presentazioni in Power Point errori indicibili di grammatica. Ascolto anche delle belle interrogazioni.

Roma. E’ il 29 agosto, nella Capitale ancora non completamente ripopolata c’è una aria calda tipicamente agostana. “L’estate addosso”. canta Jovanotti, anche per i candidati che già da un po’ di settimane (là dove gli scritti sono stati corretti) si cimentano con la prova orale del Concorsone. Decido di assistere a una di queste. I racconti, tra il mitologico, il surreale e l’inverosimile si consumano. Meglio farsi un’idea.

 

Arrivando a scuola trovo insegnanti che per l’orale hanno scomodato tutta la famiglia facendosi accompagnare anche dal bisnonno.  Mariti che ascoltano poco interessati la moglie che simula il colloquio. Altri invece sono lì solo per pescare… Questo orale infatti prevede il sorteggio di un argomento ventiquattr’ore prima della prova, sulla quale i candidati devono costruire un’UdA per poi fare una lezione utilizzando le TIC considerando che ci possono essere dei BES e dei DSA ai quali il C.d.C. dovrà aver strutturato un P.D.P. Chiaro?

 

Intanto aumenta la folla di aspiranti docenti statali, alcuni giovani, altri meno. I bidelli (scusate, coadiutori) provano a indirizzare la calca: “Chi deve sorteggia’, de là”. “Quelli de oggi, de là. Aho state a senti’?”.  L’androne, un formicaio di corpi e voci, trova un suo ordine e ognuno corre “verso il proprio destino” (destino, mai parola fu tanto abusata). Le commissioni sono cinque, si calcola un’ora a candidato. Queste cinque commissioni prevedono un solo insegnante di informatica e lingua straniera (l’inglese la più gettonata) che trottola da una all’altra. Un esame è sempre un esame. Ci si scambia auguri, si chiedono informazioni, si rivedono persone incontrate anni prima di cui rimane “una vaga traccia nella memoria”, come dice Bourget.

 

Giro per le varie commissioni e tra le prime cose che noto c’è l’inutilità della prova di lingua e informatica. Tra le domande più complicate vi è: “Come si crea una cartella?”. Ma quando il prof. di informatica è in buona, può domandare: “Come si copia e incolla?”. Qualche docente è in difficoltà. Altri si preparano prima di entrare. La prova di inglese è molto temuta. Anche qui il livello verificato è quello di terza elementare. “Che musica ascolti?”.

 

Intanto giungono voci incontrollate su un ragazzo nella terza commissione che, alla domanda: “Cosa faresti con un discente handicappato che non ti permette di spiegare”, abbia risposto: “Lo caccerei fuori”!

 

Corro tra un corridoio e un altro. Incrocio un concorrente in preda a una crisi di nervi. Non è di Roma ma ci vive da qualche giorno per seguire gli orali di giorno e studiare di notte. Cerco di calmarlo. Mi sembra strano. Mi chiede di comprargli una bottiglietta d’acqua dal distributore. Vado. Riporto l’acqua e lui sta per entrare. Ogni tanto tira un bestemmione verso il muro. Entra per l’esame. Seguo il suo orale. Non affiderei mai mio figlio a uno così.

 

La giornata vola, noto in alcune presentazioni in Power Point errori indicibili di grammatica. Po’ scritto con l’accento, senza, ma mai con l’apostrofo. Qual è ovviamente con l’apostrofo. Ascolto anche delle belle interrogazioni. Sono i docenti più giovani e meno ideologici a offrire gli spunti più interessanti: un dialogo sincero sui contenuti, idee originali, analisi reale sulla situazione dei ragazzi di oggi. Scambi di opinioni con insegnanti più anziani ma curiosi.

 

Il caldo aumenta, e io vado a vedere i bagni. Opto per quello degli studenti, su quelle pareti  ci sono molte più cose di quante ne sogni la filosofia degli insegnanti (Shakespeare perdoni il parallelo). Di fronte a me una frase scritta con pennarello nero: “Studere studere, post mortem quid valere?”. E in un attimo mi si chiarisce quello che un docente dovrebbe riuscire a suscitare nei suoi alunni e un’abilitazione e/o un concorso non potranno mai insegnare: amare lo studio per accorgersi del presente e interrogarsi sul destino. Questo è solo opera di un maestro.