La storia della linea C meriterebbe un romanzo. Inizia negli anni Novanta. Ci stiamo ancora lavorando (foto LaPresse)
Un metrò imperiale
Viaggio al termine della linea C, fermata Colosseo. Reportage
A una settimana dall’apertura i romani sembrano ancora incuriositi. E già questa è una notizia. “Andiamo a vedere la metro”, come un’attrazione. A spasso in un’archeostazione tutta da contemplare
“Ma questa non è ‘na metro... è ‘na boutique”, mi dice un viaggiatore appena uscito dalla nuova fermata “Colosseo-Fori Imperiali”: trentacinque metri di profondità, quattro livelli interrati, fresca d’inaugurazione, celebrata dalla stampa internazionale, subito autoproclamata “stazione più bella del mondo” – come sempre con le cose di Roma. Sembra in effetti un altro flagship store “Fendi”: sculture in resina sospese in aria, ready-made sparsi come reliquie, pannelli verticali. Però con tante scale mobili, vigilantes col basco, personale Atac schierato nelle nuove divise blu navy-marine. Siamo a una settimana dall’apertura e i romani sembrano ancora incuriositi. E già questa è una notizia. Si dice “andiamo a vedere la metro” e non “prendiamo la metro” come un’ennesima attrazione: San Pietro, Piazza di Spagna, il Pantheon e la metro C. Un monumento. Un pellegrinaggio laico. Un nuovo effetto speciale: partire da wasteland lontanissime ma metrodotate – Torre Gaia, Borgata Finocchio, Giardinetti, Monte Compatri, “incantevole borgo dei Castelli situato sui Colli Albani” – e ritrovarsi nelle viscere del Colosseo, nel cuore della Roma Ztl. Cose normali a Londra, Parigi, New York. Ma non a Roma. “Godemosela finché dura”, dice un anziano infilandosi nelle scale mobili. A Roma non si sa mai.
La prima cosa che noterete non sono le terme d’età repubblicana, ma il numero impressionante di cartelli “passaggio vietato”. E mi sento a casa
E allora scendo nei quattro livelli della fermata Colosseo. Tanti controllori ai tornelli, turisti col trolley e l’iPhone in mano, studenti in gita, pensionati col giornale sottobraccio. Subito un grande led con planate di droni sui Fori Imperiali mandate in loop; la timeline con la storia urbanistica della città; i video dell’Istituto Luce e le didascalie – “gli sventramenti di Mussolini”, “lo slancio economico del dopoguerra”, “le domeniche a piedi di Veltroni”. Grappoli di turisti seguono il racconto sorvegliati dal capoccione di una Medusa del Tempio di Venere che li squadra da una vetrata. Si scende giù. Ci sono i resti dei ventotto pozzi trovati negli scavi. Da qui sono emerse anfore, statuette, coltelli di bronzo, pettini in osso, lucerne, ceramiche, applique etrusche, servizi di piatti e bicchieri. I pezzi più pregiati sono freezati in teche di vetro illuminate, come gli squali di Damien Hirst. Un intero catalogo Ikea dell’antica Roma. Le persone si affollano nelle “window on history” come tanti umarell dell’Impero o vagano da un pozzo all’altro, si perdono in cerca di coincidenze e uscite, camminano in cunicoli con soffitti psichedelici, come la casa degli specchi al Luna Park. Se avete mai preso la metro a Parigi o New York avrete presente quel passo spedito, lo sguardo dritto, le traiettorie precise dei pendolari, come una coreografia di Baz Luhrmann velocizzata. Qui invece è tutto un girarsi intorno, cercare di capire come muoversi, dove andare, cosa guardare, per non perdersi una scheggia d’anfora, un frammento di mosaico, una statuetta. Nella metro C rivivono gli antichi ludi scenici: bocche spalancate, colli piegati all’indietro, telefoni puntati verso il soffitto a vetri come offerte votive. Ci sono coppie che si fotografano davanti all’iscrizione che ricorda le gesta del senatore Passifilo, vip dell’antica Roma con posto riservato al Colosseo. Signore che leggono ad alta voce i pannelli informativi. Bambini che chiedono ai genitori cosa sia un frigidarium. Ma la prima cosa che noterete venendo qui non sono le terme private di epoca repubblicana riportate alla luce dopo due millenni, bensì il numero impressionante di cartelli con scritto “passaggio vietato”, sparsi ovunque e replicati come in una serigrafia di Andy Warhol. E qui mi sento finalmente a casa.
Perché a Roma tutto è sempre transennato, incellofanato, ponteggiato. Ci sarebbe da fare un lavoro à la Martin Parr: il photo-bombing delle tante transenne che finiscono nei selfie dei turisti, firma, brand, elemento distintivo della città eterna. “Questa nuova metro è un viaggio nel tempo” si è letto un po’ ovunque, scomodando il solito Fellini. Ma è un viaggio nel tempo anche molto letterale perché lì sotto il telefono non prende. Le nuove fermate – Colosseo e Porta Metronia – sono blackspot, shadow zone, zero copertura. Questa metro C è una delle poche al mondo in cui i viaggiatori, se sono habitué, entrano nei vagoni e non tirano fuori tablet o smartphone. Sanno che non c’è campo. Fissano il vuoto. Si guardano intorno smarriti. Dormono. Nessuno però sfoglia libri o riviste – non siamo mica a Parigi. “Qui non se po’ posta’ niente mado’”, si sfoga una ragazzina con l’amica. Grido di dolore di una generazione: siamo trentacinque metri sotto il Colosseo e non possiamo instagrammare l’attimo. Chiedo ai vigilantes come facciano a stare lì sotto senza telefono. Mi dicono che il wi-fi arriverà, è questione di tempo: “E’ già previsto”. Uno mi confida che c’è un punto, “lì dietro il pozzo, vicino ai bagni”, dove forse prende. Trovo infatti tante persone stipate in pochi metri quadri. Non si capisce se in fila per il bagno o per controllare le notifiche. I bagni sono infilati in un corridoio stretto e buio, nonostante l’atrio gigantesco. Si entra da lastre di metallo scuro, come nei laboratori della Cyberdyne di “Terminator 2” o negli uffici della OCP di “RoboCop”. Due i bagni in dotazione. Uno fuori servizio. Le toilette sono autopulenti, perfette per gag alla Chaplin o alla Tati: il getto d’acqua pulente a forma di braccio meccanico ti arriva addosso tipo idrante quando meno te l’aspetti.
Per la prima volta un abitante di Torre Angela può raggiungere il Colosseo in metro. La Roma Ztl sta per incontrare Borgata Finocchio
Prime lamentele: i treni passano ogni otto-dieci minuti. Ma qui ti rendi conto che nessuno sta davvero prendendo il treno. Nessuno sembra avere fretta di salirci. Lo dice anche Salvini, “queste stazioni gireranno il mondo sui social. Chiunque verrà a vederle. Potrebbero prendere la metro anche se non ne hanno bisogno, solo per godersi il viaggio”. “Colosseo-Fori Imperiali non è solo una stazione”, ha spiegato Elisa Cella, una delle curatrici dell’allestimento; “è un museo gratuito che le persone attraversano ogni giorno, un modo nuovo di restituire conoscenza ai cittadini”. L’allestimento è stato concepito come esperienza sensoriale: cinque ambiti espositivi, diorami, installazioni multimediali, schermi che mostrano il processo di scavo – servendo, come ha notato con una punta di perfidia l’Associated Press, “sia a deliziare gli appassionati di archeologia, sia a giustificare perché ci sia voluto così tanto ad aprire la stazione”. E’ una flânerie sotterranea. Un vagabondaggio contemplativo. Un’installazione site-specific lunga duecentoquaranta metri che invece di essere firmata da un artista contemporaneo è firmata dal consorzio Metro C, dalla Soprintendenza Speciale di Roma e dall’architetto Paolo Desideri, il Marcello Piacentini del Pd romano. Penso che le archeostazioni siano l’esatto opposto di ciò che una metropolitana dovrebbe essere – cioè un mezzo per spostarsi da un punto A a un punto B nel minor tempo possibile. A Londra alcune fermate sono ricavate direttamente sotto i palazzi: apri una porta e vai giù invece di andare su. A Londra, dove la metropolitana esiste dal 1863 e copre quattrocento chilometri con duecentosettanta stazioni, le fermate sono spesso minuscole, anguste, con soffitti bassi e piastrelle vittoriane ingiallite.
Più le stazioni metropolitane sono spettacolari, meno chilometri di binari esistono. Ma che stazioni, signori. Che stazioni!
Servono per andare a lavorare. A New York, altra città che ha inventato il trasporto sotterraneo di massa, le stazioni sono notoriamente sporche, sovraffollate, prive di qualsiasi ambizione estetica e – dettaglio fondamentale – aperte ventiquattr’ore su ventiquattro. Servono per spostarsi. Ma questa non è una stazione nel senso in cui lo sono Baker Street o Times Square o anche Châtelet. Questo gigantismo delle archeostazioni lo trovo un po’ insensato. Opere inutilmente esagerate, grandi blockbuster dell’archeologia. Ma qui entra in gioco anche il nostro retaggio antico, da paese sabaudo-borbonico: nel momento in cui decidiamo di fare una cosa, facciamola costare il più possibile, che chissà quando ci ricapita. A Roma – dove la rete metropolitana è lunga circa sessanta chilometri e copre una città di tre milioni di abitanti con tre linee che formano qualcosa di simile a una X malriuscita – le stazioni della linea C sono cattedrali. Musei con i tornelli. Anche la fermata San Giovanni, aperta nel 2018, è stata subito ribattezzata “archeostazione”. E poi c’è Piazza Venezia che raggiungerà la profondità vertiginosa di quarantotto metri e richiederà – a essere ottimisti – altri dieci anni di lavori. Se ne parla per il 2035-2037. A quel punto la linea C avrà impiegato quasi trent’anni per attraversare il centro di Roma. Esiste una relazione inversamente proporzionale tra la magnificenza delle stazioni metropolitane e l’effettiva estensione della rete. Chiamiamola Legge del Guggenheim Sotterraneo: più le stazioni sono spettacolari, meno chilometri di binari esistono. Ma che stazioni, signori. Che stazioni!
Vado a vedere l’altra fermata inaugurata, Porta Metronia, dove è nato e cresciuto Francesco Totti (immortalato in immancabile murale sulla facciata di una palazzina). Qui ho preso casa poco tempo fa. “Tenga conto che poi qui ci verrà la metro”, diceva l’agente immobiliare entrando in ogni stanza durante la visita. Sapeva un po’ di presa per il culo, ma è successo davvero.
“A me ‘sta cosa che non guida nessuno me fa un po’ paura”, mi confida una signora quando vede arrivare il vagone senza nessuno in testa. I treni della linea C sono automatici. Questo genera una certa inquietudine nel romano, abituato a sapere che da qualche parte c’è sempre qualcuno che può fermare tutto, rallentare, fare una telefonata, aderire a uno sciopero. Altro effetto straniante: banchine senza pannelli pubblicitari. Niente schermi colorati, manifesti, locandine di “Avatar” o Checco Zalone. Anche i vagoni sono ancora bianchi, un po’ ospedalieri, un ambulatorio viaggiante. Sembra di entrare in una TAC. Scendo a Porta Metronia. Le due fermate sono attaccate ma lontanissime da fare in metro: otto minuti a piedi, circa dodici con la linea C. E’ la geometria non euclidea del trasporto pubblico romano. Porta Metronia è molto aeroportuale. Molto Ciampino. Molto deserta. Lunghi corridoi kubrickiani, non un suono dagli altoparlanti, solo personale Atac e addetti alle pulizie, riuniti anche qui nell’unico punto dove prende il telefono. Non è ancora archeostazione. Inaugurata insieme alla fermata Colosseo, ospiterà i resti di una caserma romana del secondo secolo con la Domus del Comandante e la Casa del Centurione. Ma non si sa ancora quando. Un gruppo di turisti fissa le grate sbarrate per vari minuti. Sperano di scorgere qualcosa nel buio. Forse non sanno che è chiusa e non aprirà né oggi, né domani.
La storia della linea C meriterebbe un romanzo o una serie televisiva. Inizia negli anni Novanta, quando qualcuno al Comune ebbe l’idea di dotare Roma di una terza linea metropolitana in vista del Giubileo del 2000. Aprire per il Duemila. Ci stiamo ancora lavorando. Nel 2002 il sindaco Veltroni firmò un accordo in cui si parlava di “tempi e risorse certe”. La stampa titolava: “Metro C, tutti in carrozza nel 2007” (che a Roma diventa subito “e tu’ nonno in carriola”). Nel 2007 inaugurarono i primi cantieri. Nel 2014 apre la prima tratta. Nel 2018 lo scambio con la linea A. Ora il Colosseo. Vent’anni. O trenta, se consideriamo che manca ancora Piazza Venezia. “La metro C è per sempre”, dicono i romani, come in quella vecchia pubblicità dei diamanti. L’equivalente urbano della Salerno-Reggio Calabria. Ogni anno un nuovo annuncio, un nuovo rinvio. La data di apertura del Colosseo è stata spostata così tante volte che elencarle richiederebbe un articolo a parte. Una via crucis burocratica. Ma la metro C è sempre stata un mistero. I romani che dicono “vengo in metro” intendono la “A”, linea arancione, collegamento tra Roma Nord e Roma Sud passando da Piazza di Spagna. Oppure specificano “prendo la B”, linea blu, che però è già più esotica, verso il mare, Eur, Ostia. La C era un viaggio ignoto. Non si sapeva bene neanche dove fossero le fermate. Le cose ora cambieranno. Per la prima volta nella storia, un abitante di Torre Angela può raggiungere il Colosseo in metro. Uno che vive a Grotte Celoni può scendere a due passi dalla Basilica di Massenzio. La Roma Ztl, quella del centro storico pedonalizzato e degli affitti a tremila euro al mese, sta per incontrare Borgata Finocchio. Monte Compatri, noto soprattutto per la sagra della ciambella al vino, è ora a ventidue fermate dal cuore archeologico dell’occidente. Le conseguenze sono già visibili. I prezzi degli immobili lungo la linea C stanno salendo (ma non quello di casa mia). Gli studenti fuori sede scoprono che si può vivere ad Alessandrino pagando la metà che a San Lorenzo, dove c’è l’università. I pendolari di Torre Maura scoprono che forse non è necessario passare due ore al giorno imbottigliati sulla Casilina. Forse. Perché non bisogna illudersi: i romani la metro non la prendono. Non c’è niente da fare. Passata la curiosità di questi giorni, torneranno in coda, in auto, sul Lungotevere o sul Raccordo, col braccio fuori dal finestrino. Prendere la metro a Roma è un po’ da sfigati. Non è Milano, non è New York. Non è un problema strutturale. E’ l’automobile come estensione del sé, bolla privata, ultimo baluardo di sovranità individuale in una città che ti toglie tutto il resto: il tempo, la pazienza, i parcheggi. E poi, come mi dice un vigilantes mentre risalgo verso la superficie, verso la luce, verso il telefono che finalmente prende: “Io preferisco la macchina. Perché pure se sei in coda, fermo, bloccato, guardi fuori dal finestrino… guardi Roma che non t’annoia mai”.