
Un delitto in tempi infami
Il terremoto degli anni Settanta ha travolto uno dei gialli più atroci e intricati della storia italiana. E ancora senza colpevoli, anche se “c’eravamo quasi”. Ida Pischedda, 23 anni, e un figlio in grembo
Giuseppe Chirghisi aveva freddo e nessuna voglia di muoversi. Badare alle pecore in quella giornata di tramontana che sferzava come uno scudiscio il pratone spelacchiato di via della Marcigliana, tra la Salaria e la Bufalotta, stringendosi nel giaccone e abbassando la coppola fino agli occhi, era già abbastanza penoso e, adesso, ci si metteva pure il cane: un grosso meticcio aggressivo, che non voleva saperne di staccarsi da una forra poco distante e continuava a uggiolare, raspare, abbaiare. Alla fine il pastore si rassegnò ad andare a dare un’occhiata e a riprendersi quel cagnaccio ostinato. Pochi minuti dopo, pallido come un fantasma, Chirghisi si precipitò a cercare il telefono a gettoni più vicino e a chiamare il 113.
Cominciò così, la mattina del 12 gennaio 1977, uno dei gialli più atroci, intricati e inquietanti dell’ultimo mezzo secolo. Omicidio in bianco e nero, con tecniche investigative che oggi sembrano preistoriche: niente filmati di telecamere da visionare, niente cellulari, niente test del Dna, niente luminol, impronte digitali prese con la polverina dagli agenti della scientifica che spesso lavoravano a mani nude, senza camici, mascherine o calzari. Come tutti gli altri, del resto: il concetto di “freezing the scene”, congelare la scena del delitto, era ancora sconosciuto. Tutti a toccare, calpestare, inquinare, mollare mozziconi di sigaretta e impronte di scarpe dappertutto. Compresi gli onnipresenti giornalisti coi loro inseparabili fotografi e i pochi cameraman dei telegiornali Rai.
Il truppone degli investigatori, col loro inevitabile codazzo di cronisti, avvisati dalle radio collegate alla sala operativa della questura, si trovò davanti a uno di quegli spettacoli che popoleranno i tuoi incubi per parecchi anni a venire. Il cadavere era carbonizzato, mutilato, fatto a pezzi. Nessuno si sognava di usare l’orrendo termine “depezzato” che entrerà in voga molti anni dopo.
Il referto dell’autopsia ricorderà vagamente quello di Giancarlo Ricci, la vittima del Canaro della Magliana. Genitali e piede destro amputati. Cranio perforato con un punteruolo, addome squarciato. E come se non bastasse, poco distante, alcuni mucchietti di pietre sistemati in modo tale da dare l’idea di un rito satanico. Eppure nessuno si aggrappò a quel particolare che avrebbe potuto suggerire scenari da sacrificio umano e che oggi avrebbero scatenato uno tsunami di illazioni sui social, sui siti true crime o nei contenitori televisivi giallo-gossip. Negli anni della carta stampata e dei giornali formato lenzuolo i cronisti ci andavano più cauti e più che di satanismo si pensò a un depistaggio. Parole come “Youtube”, “Instagram”, “Facebook” e “podcast” non erano ancora state inventate: si leggeva, si ascoltava la radio e si guardava quel poco che la tv, in tema di cronaca nera, poteva offrire, ma la passione per i gialli, le indagini, i grandi processi era quasi la stessa di oggi.
Il dirigente della mobile, Fernando Masone, “Ferdy Mason” (che diventerà uno dei capi della polizia più amati e rispettati) e il funzionario Elio Cioppa, investigatore di punta successivamente coinvolto per distrazione e ingenuità nella faccenda della P2, restarono sul posto per ore a congelarsi assieme a una pattuglia di inviati dei tre giornali romani in perenne concorrenza tra loro, il Messaggero, Paese Sera e il Tempo. Nessun testimone, nessun indizio, nessuna ipotesi plausibile. Ci vollero giorni per scoprire che quei poveri resti oltraggiati erano di una ragazza. E che era incinta di pochi mesi.
Unico elemento per arrivare al nome della vittima (senza il quale qualsiasi indagine per omicidio resta al palo per sempre), un piccolo anello di metallo chiaro che comparve su tutte le pagine di cronaca nera, con articolesse interminabili e fotografie che, oggi, sarebbero da denuncia penale. Sbatti tutto in pagina e chissenefrega. La privacy era un concetto sconosciuto, la Carta di Treviso di autoregolamentazione giornalistica doveva ancora venire: sotto con lo splatter. Togliere il lenzuolo dai cadaveri e fotografarli con tutti i dettagli macabri in evidenza era considerato un diritto della stampa. Chi ricorda le terrificanti copertine di “Cronaca Vera”, il settimanale che si leggeva dal barbiere e a cui chi scrive si vanta di aver collaborato per anni sotto lo pseudonimo di Marco Nebbia?
Pochi giorni dopo la scoperta del corpo, un ragazzo dall’aria impacciata bussò, per la prima volta, alla porta di Fernando Masone, secondo piano della questura, ufficio del dirigente. Si chiamava Adalberto Moriconi, 26 anni, studente a tempo perso, bamboccione ante litteram. “Scusi, dottore mi sa tanto che l’anello è mio… Cioè, voglio dire, della mia ragazza… Non la vedo da parecchio e…”.
Bingo. La vittima, finalmente, aveva un nome e un volto: Ida Pischedda, 23 anni, studentessa di Belle Arti, intelligente, inquieta e, come si diceva allora, vagamente “alternativa”. Un bel viso mediterraneo, aureolato da lunghi capelli scuri, un vissuto tipico di quegli anni pieni di fermenti: studi svogliati, partenze, ritorni, amicizie, fidanzamenti, relazioni iniziate e interrotte. Una classica figlia della generazione che, tra pochi mesi, si sarebbe riversata nelle piazze con un’irruenza che avrebbe finito per travolgere la sinistra ufficiale, con l’assalto al comizio di Luciano Lama all’Università. Ragazzi che ascoltavano “We are the champions”, “Psycho killer” dei Talking Heads, le prime melopee New Age che indossavano eskimo, camperos e borsa di Tolfa, che si accalcavano nei cinema fumando a catena per vedere “I duellanti” di Ridley Scott o “Guerre stellari” di George Lukas. Roma ribolliva di fermenti, di violenza e di idee: la giunta di Giulio Carlo Argan spicconava le borgate e costruiva grandi opere di edilizia pubblica e popolare, i Marsigliesi dettavano legge nella mala capitolina dopo aver sterminato i pochi boss tradizionalisti che avevano cercato di ostacolarli, gli Indiani Metropolitani di Mario Appignani, Cavallo Pazzo dal tragico destino, interrompevano i verbosi comizi dei gruppi extraparlamentari con la micidiale cantilena di “scemo, scemo”. Carlo Rivolta, cronista di punta destinato anche lui a una fine precoce, raccontava, con rara efficacia, questo terremoto ideologico e culturale sulle pagine di un nuovo quotidiano nato da un paio d’anni: la Repubblica. Un giornale fondato da Eugenio Scalfari e di cui tutti prevedevano la chiusura entro pochi anni o mesi: niente foto, pezzi stringati, niente cronaca e sport, niente edizione del lunedì, ma chi se la legge sta roba?
E Ida? Come viveva i vent’anni in quel periodo tragico, turbolento, colorato e affascinante? No, per lei niente assemblee, scontri di piazza o fumose discussioni sulla dittatura del proletariato o sui maschi da castrare. Prima di scomparire, la studentessa se ne stava tappata nella penombra di un appartamento piccolo borghese di via Monti Sibillini, Montesacro, che diventerà la location preferenziale delle indagini. La scena perfetta per un thriller familiare di cui, a questo punto, vanno presentati personaggi e interpreti in ordine di apparizione. A cominciare da Domenica Limongi, mamma artiglio di Adalberto, piccola, bionda, sexy, aggressiva, insinuante, perfetta nel ruolo di Dark Lady, seducente e accomodante coi giornalisti, spesso ruvida con gli investigatori, legata al figlio da un rapporto quasi morboso di possessività e chissà che altro. Il marito, cieco, mutilato delle gambe e di un braccio e confinato a letto, è una semplice comparsa ed è bene lasciarlo stare. Molto più importante è la parte dell’amante ufficiale, Daddo Daddi, cacciatore, che sarà il primo a finire in carcere per una prova che allora sembrava schiacciante: sangue nel bagagliaio della macchina. Peccato che il test del Dna fosse ancora agli albori e che nessuno lo usasse ancora in Italia, altrimenti si sarebbe scoperto subito che era di un fagiano.
Di sicuro, “Mimma” Limongi era stata l’ultima a vedere Ida viva. “Tornavamo a casa, le ho detto di comprare olive e prosciutto per la cena, ci siamo salutate e non l’ho più vista”, spiegò in questura, e a chiunque avesse voglia di ascoltarla. Prima ancora che il corpo fosse identificato Anna Pischedda, sorella di Ida, ricevette alcune telefonate misteriose. Voce femminile: “Ida si è stancata di Adalberto, se n’è andata con un altro, non cercatela”. Seconda chiamata: “Ida è a Trento col suo nuovo compagno ma le servono quegli otto milioni che sai…”. Depistaggio? Sciacallaggio? Estorsione? Non si saprà mai.
Le indagini, sia della polizia che dei giornalisti, scatenati come non mai, girarono a vuoto per parecchio seguendo piste che, immancabilmente, finirono nel nulla, alimentate anche dai testimoni in procinto di diventare indagati, imputati e presunti colpevoli: un giro di droga, una comune di “Figli dei fiori”, un incontro casuale, un ex fidanzato riemerso dal passato. Adalberto i guai sembrava cercarseli, con una serie di testimonianze contraddittorie e improbabili che sfornava a getto continuo anche nelle redazioni dei giornali, dove era ormai un ospite fisso. Prima puntò il dito su due amici di Ida, poi su una donna che avrebbe commissionato l’omicidio e infine addirittura su un frate in odor di satanismo. Tutte balle. I programmi televisivi di cronaca e intrattenimento (così come cellulari, computer e tante altre cose) non erano ancora stati inventati e le grandi firme di nera e giudiziaria come Ugo Mannoni, Paolo Zardo, Gian Antonio Stella o Gianni Sarrocco ci davano dentro senza risparmio con titoli a nove colonne e pezzi di sette cartelle a botta, ma Ferdy Mason e i suoi sbirri avevano già una tesi e ci lavoravano senza risparmio.
Delitto di famiglia con movente oscuro. Questa l’ipotesi della mobile. Mimma Limongi avrebbe accolto male fin dall’inizio quella ragazza vitale e spregiudicata che metteva in crisi il suo complicato menage familiare e il suo vischioso rapporto con il figlio, ma l’annuncio della gravidanza di Ida era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Un bebè avrebbe cambiato tutto, avrebbe distrutto l’equilibrio precario di quella improbabile convivenza a quattro. E Adalberto, dal canto suo, non era affatto sicuro che quel bambino fosse suo né poteva aspettare il test del Dna al nascituro. Ida andava tolta di mezzo e tutto sarebbe tornato come prima. Possibile? Forse. Probabile? Questo era tutto da dimostrare.
Adalberto finì in manette il 5 aprile con un classico escamotage giudiziario: un’accusa di calunnia che, nel giro di qualche ora, si trasformò in omicidio volontario aggravato. Nel suo ultimo memoriale aveva accusato, senza mezzi termini, la madre e il suo amante cacciatore. Indizi parecchi, movente plausibile, nessuna prova decisiva. La maledizione di qualsiasi processo indiziario. E infatti l’odissea giudiziaria che, nel 1977, era soltanto agli inizi, si trascinò per ben 13 anni per approdare a un definitivo nulla di fatto nel 1990, l’anno in cui i media spensero i riflettori per puntarli su un delitto molto più attuale e altrettanto intricato: il giallo di via Poma. Sembravano passati secoli e, ormai, parecchi novellini di nera dovevano rivolgersi all’archivio del giornale per scoprire chi accidenti fosse quella Ida Pischedda.
Di sicuro, gli anni dei processi si lasciarono dietro una scia di macerie, veleni, sospetti e vite devastate. Nel dicembre del 1978 Adalberto venne condannato a nove anni per il solo reato di occultamento di cadavere. Stessa condanna, stesso reato ma pena ridotta per la madre: tre anni. Ma se la donna e il figlio avevano nascosto il corpo chi era l’assassino? Mistero. Sentenza “debole” su parecchi fronti e che, infatti, fu prevedibilmente ribaltata quando ormai Domenica e Adalberto, dimenticate le accuse reciproche, erano tornati tranquillamente alla loro vita di sempre. Nel 1989 nuovo processo con sfilata di star in toga: da una parte il pm Wilfredo Vitalone, dall’altra, il combattivo e gettonatissimo avvocato Giuseppe Ganzi. Un duello forense seguito dalla stampa con passione e partecipazione e dai lettori con la consueta divisione tra colpevolisti e innocentisti. Vittoria di stretto margine per la difesa: gli imputati furono assolti con la vecchia formula dubitativa, ancora in voga, dell’insufficienza di prove, come a dire: sei stato tu, t’abbiamo beccato ma t’è andata bene, per questa volta. La volta successiva, in appello, però, mamma e figlio vinsero senza se e senza ma. L’accusa chiese vent’anni, la Corte assolse entrambi per non aver commesso il fatto. La procura generale non mollò la presa e collezionò una nuova sconfitta. Nel 1990 la Cassazione confermò l’assoluzione con formula piena. Caso chiuso. Domenica Limongi e Adalberto Moriconi erano e sono ufficialmente e totalmente innocenti. Pochi mesi dopo arrivò un risarcimento per ingiusta detenzione di 78 milioni da dividersi in due e solo allora mamma e figlio scomparvero, definitivamente di scena. Nessuno ne sa più niente.
Molti dei protagonisti del dramma, oggi, sono morti, gli altri sono in pensione e pochi hanno voglia di rievocare quel fallimento collettivo. Qualcuno che accetta di parlarne, però, c’è ancora: un vecchio sbirro a riposo abbastanza sveglio da ricordarsi tutto, abbastanza cauto da voler mantenere l’anonimato a tanti anni di distanza. Il concetto è chiaro. “C’eravamo quasi. La pista era buona, purtroppo c’è stata parecchia gente che ha incasinato tutto, in buona o in malafede. E ricordati che in quel periodo noi della polizia eravamo subissati: Brigate Rosse e compagnia, sequestri di persona, omicidi di malavita, scontri di piazza. Non riuscivamo a star dietro a tutto e anche questo ci ha fregato, erano anni infami”.
Anni infami, già. E un delitto senza colpevoli. Uno dei tanti. E chissà se prima o poi, in questo clima generale di revisionismo giudiziario in cui le procure sembrano innamorate dei cold case, qualcuno deciderà di riaprire il caso. Ormai manca solo l’omicidio di Giulio Cesare: ma siamo sicuri che siano stati Bruto e compagnia?
