
(foto Ansa)
l'intervista
“Eroina? Una parola che mi fa schifo”. La camorra, Saviano, l'antimafia che non si vede. Parla Capacchione
Parte offesa nel processo contro il boss dei Casalesi Francesco Bidognetti e il suo avvocato, sotto scorta dal 2008, Rosaria Capacchione è una cronista che si occupa di camorra dal 1986: "La paura si prova una sola volta nella vita". Colloquio
Napoli. Rosaria Capacchione appartiene a quella scuola di cronisti che lasciava l’“io narrante” nella penna perché conta la notizia, non chi tiene il taccuino. Preferisce l’ombra ai riflettori anche quando la notizia è lei, parte offesa nel processo contro il boss dei Casalesi Francesco Bidognetti e il suo avvocato, Michele Santonastaso, ai quali la Corte d’appello di Roma ha confermato le condanne rispettivamente a un anno e sei mesi e un anno e due mesi per minacce aggravate dal metodo mafioso. Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Roberto Saviano, parte offesa anche lui, scoppiato in lacrime alla lettura della sentenza dopo un estenuante percorso giudiziario di diciassette anni. Capacchione ricorda a ciglio asciutto che quando venne letto quel documento minatorio in aula al processo Spartacus, il 13 marzo 2008, capì subito cosa fosse: “Un messaggio di condanna a morte, perché il linguaggio della mafia lo conosco bene”. Si occupava di camorra dal 1986 consumando le suole, spulciando gli atti giudiziari, ritagliando, coltivando le fonti e consegnando il proprio nome solo alla firma sotto gli articoli.
Una settimana dopo quel 13 marzo Capacchione fu messa sotto scorta: gli altri bersagli del documento di Santonastaso, come Cantone e Saviano, la protezione l’avevano già. “Io ero la preda facile”. Se fosse stato un film, il processo Spartacus, diremmo che ne ritoccò la sceneggiatura. Saviano ne parlò, lei aveva trovato notizie: “Nel 2004 avevo scritto della compravendita di un terreno fra un presidente di sezione della Corte d’assise d’appello e la madre di un capo storico dei Casalesi, Vincenzo Zagaria, e che quel giudice non si era astenuto da processi in cui questi era imputato. Seguirono indagini, una ispezione ministeriale e tempo dopo una interrogazione parlamentare di cui il mio giornale, Il Mattino, diede notizia”. Era il 2006, alla vigilia della trasmissione degli atti di Spartacus dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere alla Corte d’assise d’Appello di Napoli. Il clamore suscitato determinò l’assegnazione a un’altra sezione. “Non sappiamo diversamente come sarebbe andata, ma il messaggio di Santonastaso mi attribuiva una responsabilità”.
Che i giornalisti non dovevano occuparsi di camorra? “Che raccontare gli omicidi va bene, ma non frugare nel suo potere. E questo lo può fare solo un cronista che è lì da una vita, con l’archivio e la memoria storica”. Non era la prima volta: nel 1991, un’inchiesta di Capacchione portò alla riconfisca degli asset patrimoniali di Francesco Schiavone, il famoso “Sandokan”. Una sola di quelle aziende valeva 10 miliardi di lire dell’epoca: “Non la presero bene. Quando il boss Dario De Simone si pentì, raccontò di un piano per sequestrarmi e uccidermi. Avevano anche la mia fotografia”. Come se la cavò? “Grazie ai rapporti personali. Mi telefonava il capo della squadra mobile: ‘Rosaria, oggi che fai? Vai in tribunale? Aspetta che si trovano sotto casa tua i miei uomini e magari ti accompagnano”.
Paura? “La paura si prova una volta sola nella vita. Successe una sera che gettavo l’immondizia: si fermò una macchina e ne scese un tizio con la pistola nella cintura. Risalii di corsa a casa e chiamai i carabinieri che vennero a passare la notte da me”. Un avvertimento o peggio. “Ma non era per me. Poi seppi che nel palazzo accanto era nascosto il latitante di un certo clan. Da allora non ho avuto più paura”.
Capacchione è sotto scorta da quel marzo 2008. Saviano dice che questo a lui ha “tritato la vita”. E lei? “Per carità: a me non ha triturato niente”. Forse è cifra caratteriale, forse la dimestichezza con la cronaca sul campo. Però Rosaria è netta: “Non usiamo termini come ‘cattività’. La scorta è una limitazione, non una prigione. Se torno a casa e mi telefona un’amica per una pizza, sono io che non mi sento di richiamare gli agenti per accompagnarmi”.
Chi ha messo tanti bastoni tra le ruote ai camorristi avrà diritto di sentirsi un po’ eroe: “Sono una giornalista, non un’eroina, anzi questa parola mi fa un po’ schifo. Non ho mai rincorso il successo, non sono invidiosa di chi ce l’ha e non ho bisogni particolarmente costosi. Una volta mi piacevano le borse, ora penso che ne possiedo fin troppe. Saviano è figlio di un’epoca che non è la mia, io sto sui social più per osservare che per manifestarmi, anche se probabilmente se lui non avesse scritto mi avrebbero già uccisa”. Capacchione ha fatto politica da senatrice del Pd, membro della commissione parlamentare antimafia, poi ha mollato: “Fu una scelta di servizio, sono rimasta una giornalista”. C’è nella lotta alla mafia un approccio di destra e di sinistra? “Negli anni ho ricevuto supporto bipartisan, anzi talvolta ho avuto più sostegno da chi non la pensava come me. Sono stata sempre fuori dai circoletti, sin da quando andavo a scuola”.
Con la mafia e la camorra, lo stato ha vinto? “La maggioranza degli italiani s’impressiona del sangue: se non scorre non presta attenzione. Sono almeno dieci anni che abbiamo una percezione di vittoria, ma mi faccio una domanda: il boom di attività commerciali e turistiche nei centri storici delle città scaturisce tutto dai risparmi dei nonni? Non parliamo solo del sud, ma per esempio di Milano”. Non sa come si potrebbe titolare questa conversazione: “Ho sempre preferito scrivere che fare titoli. Una cosa però terrei ad aggiungere: sai quante telefonate ho ricevuto dopo la sentenza?”. Si suppone parecchie. “Nessuna. Parlo di telefonate istituzionali. Dagli amici invece tante, perché una cosa mi ha insegnato la vita: alla fine contano le persone”.


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