
Una puntata di “Matrix” dell’aprile del 2010, con Alberto Stasi ospite (foto Ansa)
Passione nera, da Garlasco in giù
Indagine sull’inspiegabile amore per la cronaca nera e per il mondo pirotecnico che la circonda. Gli show in tv, i pennivendoli (come noi), gli “esperti”. Un terribile amore per il delitto diventato show
“Ogni uomo è un criminale senza saperlo”. Albert Camus ci aveva visto giusto? E’ per questo che il delitto ci intriga così tanto? Una sorta di dipendenza nazionale: il delitto di Garlasco a colazione, il giallo di Trieste a pranzo e l’omicidio di Rimini a cena, ma non ci basta mai. Una sorta di bulimia trasversale, di fissazione collettiva: tutti a indagare, parteggiare, sospettare, condannare, fino a quando, come succede più o meno nel novanta per cento dei casi, il rubinetto delle “novità” non si prosciuga definitivamente e si passa ad altro. Nuova vittima, nuovi indagati, nuove interminabili diatribe televisive che ormai neanche le sentenze passate in giudicato da anni possono arginare.
Un furbastro come Fabrizio Corona, che ha colto al volo una splendida occasione per tornare alla ribalta nel mancato interrogatorio in simultanea Stasi-Sempio, (un colpo di genio che neanche sir Arthur Conan Doyle), lo ha capito benissimo e lo dice papale: dopo Vallettopoli il gossip è morto, pontifica dal suo “Falsissimo” spazio YouTube, ho capito che quello che piace alla gente è la cronaca nera. Ed eccolo sponsor dell’imbambolato Azouz Marzouk (strage di Erba) e poi aspirante Pigmalione delle famose gemelle Cappa, sì proprio quelle che hanno cercato con ogni mezzo di ritagliarsi il quarto d’ora di celebrità dopo l’assassinio di Chiara Poggi e adesso si ritrovano, forse loro malgrado, tra un test del Dna e un superteste ritardatario, col dito puntato.
A proposito di sorelle Cappa: i famosi 280 messaggini che Paola si scambia con l’ex sodale di Corona Francesco Chiesa Soprani sono quanto di più indicativo possa esserci di come molti stiano vivendo questa sorta di febbre giustizialista. Indizi degni di questo nome neanche l’ombra, né si capisce come tutta quella roba potrebbe mai interessare la procura, ma c’è una costante e ossessiva preoccupazione per il look: cosa? Il tacco no? Ma certo che lo metto, il tacco 12, ci vuole. Mi faccio la coda? Mi lascio i capelli sciolti? Ho quel cappotto nero lungo fichissimo che dici? Butta giù la prima pagina.
Il problema è che il chissenefrega, con la nera, non funziona. Gli stessi personaggi screditati da una parte te li ritrovi freschi e pimpanti da un’altra, pronti a scodellare teorie, indiscrezioni, ricostruzioni, illazioni e quant’altro, meglio se a pagamento. La stessa, ineffabile Paola Cappa (quella magrissima con stampella ai tempi del delitto, per intenderci, non l’altra finita nel mirino delle “Iene” e del loro improbabile supertestimone) lo dice candidamente in uno dei vocali coscienziosamente archiviati e catalogati: “Se parlo dico tutto ma voglio farmi ricca, voglio un sacco di milioni”. Evviva la sincerità.
Ma il problema non è una giustizia ormai diventata avanspettacolo, più che spettacolo. Il problema è quanto piace, quanto tira, quanto aumenta le vendite, quanto incrementa l’audience. Chi scrive è reduce, nel ruolo di invitato speciale (sic) da una conferenza di serissimi, compassatissimi rotariani che si sono sgargarozzati un’ora e passa di riepilogo dei più grandi casi di nera dagli anni Sessanta a ieri pomeriggio con l’entusiasmo di un quattordicenne in un pornoshop. E mica solo loro. Austeri professori, vezzosi intellettuali, scrittrici malinconiche, artisti impegnati coltivano in silenzio la passione per sangue e manette come una sorta di vizio segreto. Chi tira tardi davanti a Bruno Vespa non vede l’ora che la finiscano con le cavolate su Trump e l’Ucraina per godersi l’avvocatone dai capelli cotonati che punta il dito sull’indagato stile Marco Tullio Cicerone con le Catilinarie. Una star.
Sì, vabbè, ma la domanda resta. Perché il crime ci seduce e ci intriga? Forse per lo stesso, perverso meccanismo che fa rallentare le auto della fila opposta quando c’è un incidente con morti e feriti in autostrada? Forse una sorta di catarsi (per carità non chiedete alla Bruzzone che ce lo spiega in tre o quattro ore)? O magari il vecchio assioma meglio a lui (lei) che a me? Perché quando osservi le disgrazie altrui dalla finestra o dalla televisione, in qualche modo, ti senti invulnerabile. I drammi accadono, certo, ma agli altri, quindi mettiamoci comodi e godiamoci gli sviluppi dell’ultima ora.
La passione per la nera, ovviamente, non è nuova, e per fortuna visto che altrimenti avrei dovuto fare un altro mestiere. Quello che è cambiato è la virulenza delle opinioni che poi, a ben pensarci, è la stessa dei social. “Ma stai zitto, imbecille”, è una delle frasi più gentili che mi scrivono su Facebook praticamente dopo ogni ospitata seguita da. “Ma ’sto cretino lo paghiamo coi nostri soldi?”. Colgo l’occasione per ribadire alla gentile signora che dalle tivù non prendo un centesimo e, del resto, nessuno me lo offre. Dirò cavolate ma le dico gratis, chiusa parentesi.
La domanda da un milione di dollari, quella seria, quella che dovrebbe far riflettere, è un’altra: ma tutta ’sta roba finisce per influire anche sulle indagini o peggio, molto peggio, sulle sentenze? Ricordate le querelle sull’assoluzione “diplomatica” di Amanda e Raffaele, i fidanzatini di Perugia? O le insinuazioni sulle pressioni di non meglio definite “Eccellenze” nel giallo di via Poma? Beh, in questo caso il clamore è stato tale che la gip romana, nel respingere l’ennesima richiesta di archiviazione dei pm, ha suggerito di indagare sui “poteri forti”, manco fosse un’emula di Virginia Raggi.
Beh, ahimè, temo che la risposta sia sì. Certi tentativi di enfatizzazione e spettacolarizzazione che una volta venivano stoppati sul nascere, oggi purtroppo riescono a cambiare le cose. Un esempio del passato e uno recente: anno domini 2007, arresto del domestico assassino Manuel Winston Reyes per l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, nel 1991, un feuilletton durato quasi diciotto anni come quello di Garlasco, tra piste deliranti, indagini improbabili, veleni a gogò. Una nuova pm, bella e tosta, “scopre” una traccia di sangue dimenticata (achtung: non già analizzata e scartata come quella che dovrebbe inchiodare Andrea Sempio, proprio snobbata dai Ris nonostante fosse evidentissima e di colore diverso dalle altre), la fa controllare, inchioda l’omicida e l’ex domestico (che ha chiamato la figlia col nome della sua vittima) confessa già sulla volante che lo sta portando in procura, poi racconta tutto per filo e per segno. Pianto e stridor di denti. Nessun dubbio.
Caso chiuso? Neanche per sogno, troppo semplice: due avvocati specializzati nelle comparsate televisive si precipitano dalla moglie e cercano di convincerla a far ritrattare il filippino in modo da beccarsi più visibilità possibile e cominciare con la solita faccenda è lui, non è lui… Quella volta va male, la signora risponde picche, il saggio avvocato difensore sceglie la strada della riduzione del danno e il rito abbreviato (allora possibile per omicidio) e Manuel Winston si becca sedici anni. Pochi? Forse, sta di fatto che oggi è libero.
Ma a tanti anni di distanza le cose sono cambiate. Gli avvocati fiutano il sangue e ci si lanciano come piranha tanto che ci si domanda come facciano a elaborare una strategia processuale se passano più tempo sulle poltrone degli studi televisivi che su quelle dei loro uffici. E molto spesso, a chi mastica un po’ di giudiziaria, la linea più favorevole all’indagato o all’imputato sembra abbandonata in favore di quella più spettacolare. Controinchieste. Testimoni farlocchi. Lettere anonime. Confidenze carpite coi mezzucci. Soffiate ai cronisti servizievoli e disponibili. E tutto questo, purtroppo, ha un effetto nefasto perché inquina, confonde, intorbidisce.
Un caso particolare è quello dei bambini scomparsi, autentica manna per i contenitori televisivi perché suscita un duplice effetto contrastante: compassione per i piccoli ed esecrazione o sospetti per i genitori o i parenti. Prendiamo la vicenda eterna di Denise Pipitone, Mazzara del Vallo, settembre 2004, anche quella aperta e riaperta di continuo a furor di tivù per poi arrivare a un prevedibilissimo nulla di fatto. La pista rom. La pista tunisina. La pista russa. Ogni tanto una ragazza squinternata o ambiziosa e spregiudicata dichiara pubblicamente di essere lei Denise e anziché farle il test del Dna e magari imbavagliarla in attesa degli ovvi risultati negativi, eccola, truccatissima e scintillante, in televisione con tutti che le stanno appresso che nemmeno Lady Gaga. Perché parlarne tanto se tutti sanno già come andrà a finire? Ma soprattutto perché tanta gente ci crede ancora? Effetto “Chi l’ha visto?”.
Ricordate Kata? Sì, proprio lei, la deliziosa bimba di 5 anni svanita nel nulla il 10 giugno 2022 da un vecchio albergo fatiscente di Firenze diventato il rifugio di diseredati, drop out e clochard. Rapita? Uccisa? Sulla mamma, che sviene in diretta e compie gesti di autolesionismo per la disperazione si abbatte un tornado di malignità: è andata dal parrucchiere, quella non la conta giusta, guarda che cappellino la signora, ma vi sembra disperata? Oggi nessuno ne parla più e le indagini proseguono, anche se con uno stanco girare a vuoto.
La terribile realtà è che se un bimbo scompare e non viene ritrovato nel giro di 24/36 ore al massimo le possibilità di rivederlo sono scarsissime se non inesistenti. Tra i casi più clamorosi (Denise, le sorelle Schepp, Angela Celentano, Mauro Romano, Kata e tanti altri) nessuno si è risolto tra abbracci e lacrime di felicità. In Italia spariscono di media sessanta bambini al giorno e solo il quaranta per cento viene ritrovato. Se ne parla raramente ma è così.
E a questo punto bisogna tirare in ballo la nostra categoria, sì, proprio noi, i pennivendoli, quelli che montano la fuffa, che s’inventano detective, che pronunciano sentenze sommarie… Ma è davvero così? E’ un po’ la storia dell’uroboro, il serpente che si mangia la coda: le fonti (in toga? in divisa? in borghese?) sfornano scoop farlocchi o simil-notizie e i cronisti, gli inviati sul campo, hanno il dovere di pubblicarli, è semplicemente il loro mestiere. Chi è senza peccato eccetera eccetera, ma magari un minimo di sano scetticismo o magari qualche controllo in più ci starebbe tutto. Prima non funzionava così. E per dimostrarlo, chiudo lo sproloquio con un aneddoto personale.
Siamo nel 1975 e uno spaurito volontario diciannovenne di Paese Sera viene spedito sul suo primo omicidio con un incarico speciale: guarda bene il cadavere e al ritorno descrivilo nei dettagli, mi raccomando, i dettagli. Un classico test per mettere alla prova un futuro nerista e vedere se era abbastanza dotato di pelo sullo stomaco visto che, allora, i corpi non venivano coperti come oggi, almeno per i giornalisti.
Beh, il morto era un portavalori ucciso con un colpo di pistola in testa durante una rapina a piazza Albania, il cronista ero io, il capocronista un’autentica belva che chiamavano “Il Guercino” per via di un occhio offeso.
Corro, osservo, guardo bene, prendo appunti, torno trepidante.
Dopo mezz’ora l’esame, il Guercino con le foto del corpo in mano, io, terrorizzato, alle prese con gli scarabocchi sul taccuino. C’era sangue? Pochissimo. La ferita? Tempia sinistra. Supino o bocconi? Di fianco (menomale ci ho messo anni a capire la differenza). Berretto? A terra. Com’era vestito? Giacca blu, pantaloni in tinta. E la cinta dei calzoni?
Angoscia: e chi ci ha fatto caso, alla cinta dei pantaloni? Nel dubbio, visto che le alternative sono due e che, come diceva papà, di blu e di marrone si veste il gran cafone squittisco… nera?
Gran cazzotto sul tavolo seguito da un ruggito: la cinta non si vede, ragazzino, è coperta dalla camicia. Non inventare dettagli, il giornalismo è esattezza. Chiaro? Notizie, non illazioni.
Altri tempi. Passai l’esame, comunque, magari in mancanza di candidati più svegli. Chissà se è stato un bene. A quanto vedo e leggo oggi, probabilmente no. Ma, per tanti anni, quel modo di lavorare ha funzionato… Anche se, allora come oggi, ci chiamavano sciacalli.