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Danilo Coppola, la maledizione dei furbetti e Natale ad Abu Dhabi

Michele Masneri

Quer pasticciaccio brutto di Abu Dhabi. Tra Yuppies e Alberto Sordi, ascesa e caduta del finanziere romano, soprannominato “er cash”

Esiste un razzismo finanziario? Prima di essere arrestato ieri ad Abu Dhabi, il finanziere romano Danilo Coppola postava all’impazzata su Instagram storie in cui accusava giudici “deviati” e  pezzi del Csm, ma tutti erano colpiti piuttosto dalla parlata. “Penzate che io nella vita voglia fa’ er latitante?”, e poi “Signori bongiorno” alla Roberto Carlino mentre correva sul tapis roulant e richiedeva “separazione delle carriere”, perché lui si sente perseguitato dai magistrati che a un certo punto avrebbero bloccato la scalata di quello che da sconosciuto palazzinaro romano era diventato il ventunesimo uomo più ricco d’Italia.

 

Il problema di Coppola, già soprannominato “er cash”, lasciando da parte la vicenda giudiziaria, è che è romano. Certo anche l’estetica non aiuta. Occhiali scuri azzurrati sotto lampadari dorati, una via di mezzo tra Wanna Marchi a Durazzo e un Gianluca Vacchi però capitolino, Coppola potrebbe avere un futuro come influencer, del resto il latitante influencer non si era ancora visto.  Quando esplose, Coppola, negli anni Duemila, il Paese restò attonito per la capigliatura, un gran carré misto tra Venditti e Hillary Clinton prima maniera, e non si era ancora abituati al fantasismo tricologico, non c’erano stati i Trump e i Milei.  Per l’Italia la finanza era Enrico Cuccia, completi gessati, profilo basso, attaccatura alta (l’omonimia di Coppola con un famoso parrucchiere faceva il resto). 

 

Coppola impersona una specie di controstoria della finanza italiana, uno specchio deformante del self made man mediterraneo. Arrestato varie volte, a un certo punto sembrava però che si prendesse tutto, o almeno tutto quello che un buon capitalista  italiano sognava negli anni Duemila. Lui, nato alla Borgata Finocchio, periferia est di Roma, figlio e nipote di palazzinari siciliani, sogna giornali, barche, Mediobanca, tutti i miti che la rivista Capital metteva in copertina. E  quasi ci riesce: il 5 per cento di Mediobanca, la Bnl, l’Antonveneta, poi un giornale. Non il Corriere della Sera, che pure era stato il sogno di un altro compagno di giochi e di capelli, quello Stefano Ricucci che ne era una versione ancora più frizzante. Se Ricucci si era preso  la villa ex Feltrinelli all’Argentario, Coppola si era  fatto il villone a Grottaferrata (da pronunciarsi con una sola “r”). Il sogno del Corriere, poi, che tenerezza, un periodo in cui i giornali contavano ancora qualcosa e qualcuno ancora li leggeva: Coppola divenne a un certo punto azionista invece di “Editori Per La Finanza”,  gruppo  col logo che era una  preziosa perla, gran trovata, poi andò tutto a scatafascio e il giornale fallì. Ma Coppola si regalò quello che sognavan tutti in quegli anni, aveva l’aereo privato, identico a quello di Diego Della Valle, un Falcon metallizzato (ma non gli piaceva, e gli portò sfiga, ne derivarono altri drammi legali. Il non ancora direttore Claudio Cerasa raccontò in un gran ritratto qui sul Foglio che Coppola a un certo punto incontrò Della Valle e si domandò se “quel signore fosse davvero più ricco di me”. Senza capire che il problema non sono mai stati i soldi). A un certo punto Gad Lerner su Vanity Fair scrisse che  “l’economia italiana” era affetta “da gracilità congenita, da fisiognomica lombrosiana”.  

 

Ecco il razzismo. L’Italia è un paese che ha sempre odiato il successo, i soldi van bene se il casato è antico o lo sarà presto ma con stile, diamine, siamo o non siamo il paese del made in Italy? L’imprenditore trucido non è ammesso. C’è un passaggio fantastico nell’autobiografia di Adriano Galliani quando l’ex antennista poi capo del Milan ricorda che a un certo punto  accompagnò Berlusconi nel nuovo chalet di St. Moritz. Anni Ottanta, St.Moritz, tutto funziona, loro  si sentono proprio arrivati. Fa  un freddo cane, loro sono imbacuccati “come Totò e Peppino”, e avvistano però il “clan Agnelli”, con l’Avvocato con la camicia aperta  e Montezemolo scicchissimo in doppiopetto, e lì gli crolla il mondo addosso, altro che arrivati; “non saremo mai come loro”. 

 

Coppola e i suoi,  invece, i “furbetti del quartierino”, secondo la celebre autodefinizione di Ricucci intercettato, vennero forse ostacolati anche per un fattore estetico. Loro sono sempre rimasti i romani di “Yuppies” che al ristorante “El Camineto” di Cortina in alta stagione cercano un tavolo, e stranamente lo trovano, gli danno addirittura quello del conte Nuvoletti (che dirà: non vengo oggi, ci sono troppi romani).  Loro vagheggiano di essere come l’Avvocato che li sorvola in elicottero, ma poi si scannano sul conto del ristorante (“ahò, te piace l’avocado”). Erano davvero un gruppetto curioso, i furbetti, capitanato dai due romani, Coppola e Ricucci. Da romano Coppola si era comprato non solo la villa a Grottaferata e una quota della Roma, ma anche i grandi magazzini Mas. Lo accusarono di esser amico della banda della Magliana ma poi si rivelò tutto falso. Perché a Roma scade tutto sempre in Suburra e coi ricchi a forma di ricco,  blazer coi bottoni d’oro tipo Ruggero De Ceglie dei Soliti idioti. 

 

Certo, quella compagine non era rappresentativa solo della capitale. C’era anche il bresciano Chicco Gnutti che dette delle soddisfazioni. Gli Gnutti a Brescia sono come i Rothschild, ricchissimi e ramificatissimi, lui  trascinò una città da sempre a economia vorticosa ma catto pauperistica (Paolo VI, Bazoli ecc.) in un vortice di finanza e avventurismo, e quando finì, male, al ristorante La Sosta, che è un po’ il Le Cirque o il Bolognese bresciano, un azionista gabbato lo riconobbe e gli diede un gran manrovescio. Però oggi vista la profusione di documentari o docufiction a tema soldi e “sòla”, da “Inventing Anna” a Liliane Bettencourt coi suoi parassiti, a Bernard Tapie ai vari siliconvalici-bidone, ci si chiede come mai i furbetti coi loro capelli, macchinoni, barche e ragazze non abbiano ancora prodotto né documentari né fiction. Loro son rimasti quei ragazzi lì, tra "Vacanze di Natale" e "Yuppies", ma intanto sono arrivati i social. Così ecco Coppola che negli ultimi tempi postava  reel dove sulle note di Adele esibiva ritagli di giornali quando era grande (“Coppola sale al 98 per cento del Lingotto di Torino”,   “Coppola arriva al 10 per cento della Roma; “Effetto Coppola”). Occhiali da sole azzurrati alla Renato Zero, “vivo come il Fuggitivo di Harrison Ford”, dice, “per colpa di un giudice che non ammette un errore” e magari ci ha pure ragione, chissà; il romanesco comunque non aiuta, il romanesco fa subito “a me m’ha rovinato ‘a guera”. Però forse una volta sistemate le sue beghe legali potrebbe riciclarsi come finanziere-influencer, in quota underdog. Forse i tempi sono cambiati, l’Avvocato del resto è morto da vent’anni, i suoi eredi si vendono tutto e soprattutto, notizia di ieri, il ristorante El Camineto di Cortina è passato di mano: dagli storici gestori a Flavio Briatore.
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).