(foto di Ansa)

Dimenticare le macerie

6 aprile 2009/6 aprile 2022. Come sta L'Aquila tredici anni dopo il terremoto

Giuseppe Fantasia

Dopo il sisma la città è tornata timidamente a vivere e c'è un percorso artistico che rinasce, tra mostre, restauri e musei. Ma la strada per la ricostruzione è ancora molto lunga

L’Aquila - 6 Aprile 2009 / 6 Aprile 2022. Se 13 anni vi sembran pochi. “Ne sono già passati così tanti?” – mi chiedono i più che sanno le mie origini (sono nato lì), gli stessi che quella notte, alle 3 e 32 - beati loro - non c’erano e quindi non potranno mai capire cosa vuol dire vivere la paura e l’orrore per 23 interminabili secondi (provare per credere: contate fino a 23), sballottati al buio e senza capire nulla, semmai ci fosse qualcosa da capire, senza vestiti e senza sicurezze tra innumerevoli incertezze. Quella notte, 309 persone non ce l’hanno fatta, anche se qualcuno -  giustamente - ha detto che il 6 aprile del 2009 “siamo morti tutti” e un po’ – se ci pensate, nonostante uno voglia vivere in positività (non al Covid), una escamotage per salvarsi, almeno in apparenza – è vero, perché non c’è più quel posto in cui si era e si tornava (non sempre e per forza volentieri), non ci sono più le persone di un tempo (in tutti i sensi), non ci sono più le radici, non ci sono più i punti di riferimento e a stento – dopo 13 anni – si cerca di ripristinarli. “Ci vediamo aju Boss (storica cantina locale) o sotto i portici del Rex (il vecchio cinema)”, sono frasi che non avranno mai più lo stesso valore di un tempo. Possono averne un altro, questo è ovvio e ci mancherebbe che non sia così, ma sarà sempre ‘altro’ per l’appunto, quindi diverso.

 

“L’Aquila non deve morire man mano che viene ricostruita”, disse allora Franco Arminio. Sigillare le sue ferite e le nostre non vuol dire togliere l’aria dall’anima e di quella che è L’Aquila bella mé (‘bella mia’, in dialetto), bisognerà ancora una volta riappropriarsene. Non è facile, ma la voglia di riviverla prima che la polvere diventi tappeto per passi inerti c’è sempre e piccoli/grandi passi in tal senso lo stanno in qualche maniera dimostrando. Molti edifici sono stati ricostruiti, soprattutto quelli di interesse storico e artistico, a cominciare dalle chiese, alcuni locali e negozi che sono stati riaperti, persino lo storico Bar Fratelli Nurzia (quell’ dell’omonimo torrone) in piazza Duomo, ma tanto ancora c’è da fare. Alcune vie del centro storico sono ancora chiuse e non vi si può accedere e alcuni di quei palazzi sono così come erano 13 anni fa, soprattutto in alcuni paesi limitrofi (furono 65 i comuni coinvolti dal sisma). Tutti abbandonati in attesa che qualcosa o qualcuno accada o intervenga, o tutte e due. Il noto “bonus 110”, che è andato a sovrastare, in molti casi, il “bonus terremoto”, non ha fatto altro che complicare le cose, non ha fatto altro che aggiungere altre domande senza risposta (almeno per ora), altri dubbi e altre inutili incazzature e sono in tanti a non averci capito nulla.

 

Che questa città sia ferma – Immota Manet, mostra orgogliosamente sul suo stemma – sono oramai in tanti a saperlo, a cominciare dagli stessi aquilani che hanno una dote che sono in pochi ad avere, oltre ad uno spiccata propensione al pettegolezzo (celebrato ogni anno, il 21 gennaio, a Sant’Agnese, protettrice delle malelingue, con una festa ad hoc che piace tanto a Bruno Vespa, aquilano doc): la capacità reagire e di contestarsi tra loro. All’aquilano medio, non va bene mai nulla e si lamenta per qualsiasi cosa, dell’orto del vicino in primis. Non gli sta bene, ad esempio, il nuovo Auditorium progettato da Renzo Piano e donato alla città, “perché non c’entra nulla col Castello” (è stato costruito vicino al Forte Spagnolo Cinquecentesco); non gli piacciono le luminarie di Natale e trova “orrendo” il posto dove viene fatto il nuovo mercato il sabato, “per non parlare poi” della spilletta a forma di un croco di colore viola, il fiore dello zafferano, ‘oro giallo’ locale, che il sindaco leghista, ha voluto come “simbolo di speranza e vita che rinasce”.

 

L’aquilano guarda con diffidenza i nuovi negozi che tolgono il monopolio a chi, da quelle parti, l’ha sempre avuto indisturbato, figurarsi uno come Daniele Kihlgren, “che è strano”, ma che in realtà, è solo lungimirante e un genio dell’imprenditoria (l’albergo diffuso, a Santo Stefano di Sessanio, a 30 minuti dal centro cittadino, quello a Matera e in Congo sono una sua invenzione). Ha da ridire sulle modalità in cui si terrà la fiaccolata commemorativa questa notte, con i 309 tocchi della campana, tanti quanto il numero delle vittime, e non sopporta quel maxischermo per vederla in piazza che così grande, a quanto pare, poi non è. E così via. L’importante, per molti di loro, è lamentarsi in alcuni casi solo per il gusto di farlo. La poca apertura all’esterno e a tutto ciò che non rientra in una normalità precostituita, accompagnato spesso da ignoranza da intendersi come ‘non conoscenza’, di certo non aiuta. 

 

Che fatica per chi conosce e vede il tutto da lontano, figurarsi per chi ci vive ogni giorno e non è così. Eppure, a ben vedere, qualcosa si sta muovendo. Almeno nell’Arte, visto che proprio da queste parti, nello storico Palazzo Ardinghelli, è stata aperta la succursale del Museo Maxxi, con una ricca collezione permanente e mostre temporanee che cambiano e attirano un pubblico sempre più variegato che scopre finalmente questa città Capoluogo (“ma non era Pescara?”, mi sono sentito dire sin troppe volte), che potrebbe essere una Rolls più che una Ferrari (siamo in provincia, ed esagerare e mostrare è una regola sì monotona, ma sempre verde), ma si comporta come una Cinquecento. Eppure, la mostra In Itinere – curata da Bartolomeo Pietromarchi e Fanny Borel – un insieme di progetti e committenze di artisti e fotografi che indagano attraverso il loro sguardo territori caratterizzati da percorsi sotterranei e memorie sepolte, raccontando viaggi e scoperte, incontri e sorprese nei meandri profondi della terra – è un’eccellenza. Se Armin Linke, MASBEDO e Claudia Pajewski, Hidetoshi Nagasawa e Cao Fei hanno scelto L’Aquila, qualcosa vorrà pur dire. Una come Antonietta Centofanti, mente del Comitato Vittime della Casa dello studente scomparsa da pochi mesi - lei che quella notte perse il nipote Davide tra le macerie della Casa dello Studente – detestava questa città e chi la abita, ma così facendo, in qualche modo, la e li proteggeva.

 

“Quello che è cambiato, dopo quella notte - mi disse l’ultima volta che le parlai, esattamente un anno fa - sono le scelte che ciascuno ha compiuto per fare i conti con ciò che era accaduto. Io ho scelto di dare un significato a questo lutto terribile, di farne un’occasione di impegno sul fronte della rivendicazione della sicurezza in tutte le sue declinazioni. È nato il Comitato dei familiari delle vittime della casa dello studente e dopo un paio di anni abbiamo messo su una rete nazionale che raccoglie i famigliari delle vittime della ThyssenKrupp e della strage di Viareggio. Sono arrivate qui le mamme della terra dei fuochi, che hanno perso bambini avvelenati dai rifiuti tossici che la mafia e la camorra seppelliscono in quel territorio. Ciascuno di noi ha scelto di fare un percorso di lotta, dando un significato al lutto, utilizzando quest’esperienza di dolore per fare in modo che queste tragedie non si verifichino più”. Sua vittoria personale, oltre alla vittoria al processo, il Parco della Memoria: “Non si tratta di un luogo cimiteriale come da più parti si è tentato di dire – tenne a precisare, ben sapendo che un posto del genere, architettonicamente ed esteticamente, non mi sarebbe mai piaciuto – ma è il fondamento del cambiamento, perché se non ricordiamo cosa è accaduto in passato, non possiamo migliorare il presente e il futuro”. Stasera, sempre in piazza Duomo, sarà azionato un dispositivo che emetterà un fascio di luce verso il cielo. Sarà anche per lei, ma conoscendola, lo so che le darà solo fastidio.

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