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Cosmopolitics

L'urgenza dell'America di sentirsi una grande nazione

Paola Peduzzi

George W. Bush ha pubblicato una raccolta dei sui dipinti di immigrati americani: “Una nazione che ha la forza di accogliere rifugiati e persone ferite o spaventate per me è una grande nazione. E noi siamo una grande nazione”

Con questa società così arrabbiata, è difficile fare breccia con la gentilezza, con il rispetto, con la solidarietà, ha detto l’ex presidente americano George W. Bush, intervistato sulla Cbs per presentare il suo libro, che esce oggi. E’ un libro di ritratti – da quando si è ritirato a vita privata, Bush jr dipinge sempre – che si intitola “Out of Many, One”: una raccolta di dipinti di immigrati americani, il manifesto attualissimo e doloroso di un rappresentante di quello che i politologi chiamano “conservatorismo compassionevole”, e che Bush sintetizza così: “Una nazione che ha la forza di accogliere rifugiati e persone ferite o spaventate per me è una grande nazione. E noi siamo una grande nazione”.

 

Il suo Partito repubblicano è diventato molto più duro sulla questione, con il muro, con le separazioni dei minori dai genitori alla frontiera, con la retorica della “carovana” di delinquenti in arrivo, pronta ad assaltare lo spirito americano e i suoi valori. L’attuale presidente Joe Biden ha voluto invertire la rotta retorica e ha fatto un appello all’accoglienza che ha messo in moto un grande flusso di persone in arrivo alla frontiera sud: ci sono tanti ragazzi soli, simbolo tragico di una disperazione senza cura, madri e padri che mandano i loro figli a provare a salvarsi. Biden ha detto poi che avrebbe mantenuto i tetti all’ingresso previsti dall’Amministrazione Trump, è stato massacrato, e quindi poi ha previsto una riforma anche di quelli. La delega sull’immigrazione è stata data alla vicepresidente Kamala Harris, fiera e terrorizzata come chi deve gestire e dare una direzione a un tema tanto complesso. Bush, da sempre sostenitore dell’immigrazione come risorsa e non come tragedia, dice che molti leader hanno creato “rabbia e paura” per portare avanti la loro agenda politica, ma qui non si tratta di essere di un partito o di un altro, l’integrazione è una sfida americana (e non solo) e va affrontata così, a livello di paese e di società, “uniti, non divisi”. 
Bush parla di unità e della forza delle leadership che sanno unire, dice che è disposto a sostenere l’Amministrazione Biden in ogni modo, e si legge in queste sue dichiarazioni non soltanto il rifiuto della stagione trumpiana, che già conoscevamo, ma anche l’urgenza di curare una ferita che sta tormentando l’America.

 

 

Dopo l’intervista a Bush, l’emittente è tornata, come tutte le altre, alla notizia che sta tenendo attaccata l’America agli schermi, il processo in diretta tv all’agente che ha ucciso George Floyd a Minneapolis, lo scorso anno. La giuria si è riunita, dopo testimonianze tragiche, dopo che la città si è infiammata di nuovo, perché è stato ucciso dalla polizia un ragazzo nero di vent’anni, per errore, quell’errore che la piazza non è più disposta a tollerare. Quel che più sconvolge è che  Minneapolis come altre città è blindata: ci si prepara al verdetto, dicono, con l’idea di doversi ancora scontrare perché l’esito potrebbe non suonare sufficiente per chi chiede giustizia. Il paradosso lo percepiscono tutti, la rincorsa tra sicurezza e paura, la sfiducia anche, la necessità di sentirsi dire: siamo ancora una grande nazione.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi