(foto LaPresse)

Ve l'immaginate il Recovery fund a litigare con gli inglesi?

Paola Peduzzi

Il sollievo di un’assenza, per un attimo

Capisci che c’è voglia di normalità perché è ricomparsa la Brexit in qualche chiacchiera, o forse si tratta soltanto di un’esigenza del palinsesto: entro il 1° luglio Regno Unito e Unione europea devono accordarsi sulla questione della pesca, che è forse la parte più comprensibile di tutto il negoziato, per quanto la più controversa. Il perimetro della discussione è molto semplice: gli europei vogliono mantenere le quote e l’accesso alle acque britanniche e i britannici vogliono avere l’ultima parola, e decidere chi entra e cosa pesca. E’ chiaro che, in caso di non accordo, la convenienza è tutta dalla parte degli isolani: decideranno loro e mai sovranità è stata meglio esercitata rispetto a questa sui merluzzi e sugli eglefini (bisogna poi vedere come si muoveranno i pesci, perché i negoziatori possono regolamentare tutto tranne le correnti e i capricci dei branchi). Ancora una volta si tratterà di mostrare la forza di 27 paesi contro uno, e di tutte le questioni che andranno affrontate in quest’anno di Brexit su questa c’è un sostanziale consenso: i pescatori continentali sono uniti contro quelli inglesi, tutti quanti. Ma non si sa se l’unità sia sufficiente, visto che il fallimento del negoziato ha già un vincitore. Per questo gli europei si muovono sulla linea dell’ottimismo e delle buone intenzioni, dicono di essere pronti a fare concessioni e di essere ben predisposti. Gli inglesi arricciano il naso, non si fidano di tanti sorrisi, temono che ci sia qualche tranello disseminato sulla strada. Soprattutto sanno che oltre ai pesci c’è un appuntamento ancora più decisivo: entro la fine di giugno bisogna decidere se concedere una proroga ai negoziati che sono stati bloccati dalla pandemia. Gli inglesi non ne vogliono sapere, gli europei lo considerano quasi inevitabile. Boris Johnson, diventato premier con lo slogan “get Brexit done” non fa che dire: ce la facciamo entro l’anno, non preoccupatevi.

 

Ma tra le pieghe di questo romanzo un pochino ripetitivo c’è una nuova percezione, che forse è sollievo e che giustificherebbe anche tutto questo ottimismo europeo. Qualcuno lo sussurra appena: ve l’immaginate il Recovery fund se ci fossero stati gli inglesi? I principi del rebate e delle eccezioni avrebbero probabilmente reso impossibile il negoziato sui soldi di sostegno ai paesi colpiti dal coronavirus. Certo, vista da Londra la questione potrebbe anche essere ribaltata: il governo s’è dovuto rimangiare ogni istinto di austerità e rigore e ora cerca gli espedienti per sostenere la ripartenza confusa del Regno (veramente confusa: per esempio si può andare a fare il barbecue nel giardino di un amico ma non ci si può sedere sulle sue sedie, però se si deve usare il suo bagno si può). Un aiutino dall’Europa quasi quasi sarebbe stato utile. Al contrario gli europei, che pure da sempre sperano in qualche ripensamento improvviso di Londra, hanno per la prima volta scoperto che qualcosa, senza gli inglesi, magari funziona. Certo, l’opposizione al Recovery fund c’è anche nel gruppo dei 27, ma con gli inglesi è sempre stato tutto diverso. E così, mentre si aspetta di capire che ne sarà di questo 2020 degli addii, per la prima volta l’assenza degli inglesi non fa così male. Non ci abitueremo, promesso.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi