Ci sono trenta milioni di bambini profughi nel mondo che salgono sugli alberi per vedere casa

Paola Peduzzi

    Ci sono più di 60 milioni di persone nel mondo che non vivono più a casa loro, viaggiano con borse chiuse con lo spago, strada facendo abbandonano quasi tutto, perché più ti allontani da dove sei nato e cresciuto, dai luoghi che riconosci senza aprire gli occhi, più l’essenziale si riduce al nulla. Scappano dalle guerre, dalle persecuzioni, dalle bombe, dalle razzie quotidiane, dalla paura di morire: è dalla Seconda guerra mondiale che non ci sono tanti “displaced” nel mondo, li vediamo che arrivano in Europa sognando la nostra libertà, disposti a tutto pur di darsi un’altra occasione. Per la metà, sono bambini. Trenta milioni di ragazzini stanno scappando, un numero che fa orrore, e quando il mare non li travolge, quando la strada non li spezza, quando la fortuna li aiuta, si fermano dove possono, i più speranzosi li vedi trotterellare nei video delle camminate infinite accanto ai genitori, chissà che cosa si aspettano.

     

    Il Magazine del New York Times ha scelto di raccontare domenica tre storie di bambini. C’è Hana, che è siriana e ha dodici anni, ma un quarto della sua vita l’ha vissuto nel campo profughi libanese nella valle di Bekaa, dove lavora alzandosi all’alba per andare a raccogliere frutta e verdura – con le prugne bisogna continuare ad andare su e giù dall’albero, bello all’inizio, ma poi i giorni sembrano non finire mai, e sotto il “datore di lavoro” continua a gridare “Yalla yalla”, forza forza; le mandorle invece sono bugiarde, non riesci mai a pulirle come dovresti, e perdi un sacco di tempo. Hana ha lasciato tutto quel che aveva in Siria, quando sale sugli alberi più alti vede il confine, sogna di tornare a casa, anche se le viene da piangere al pensiero che la sua bambola preferita, quella con la corona e i capelli lunghi, sarà stata calpestata, sporcata, bruciata. Agli altri bambini che arrivano al campo profughi chiede di non raccontare le loro storie: le fa male ascoltarle, le ricorda quel che ha passato lei, a volte finisce per invidiare la sua sorellina più piccola, che ha cinque anni, e pensa che la vita sia tutta lì, nella tenda del campo fatta di nylon e legno. C’è Oleg, che ha undici anni e vive nell’est dell’Ucraina, in un villaggio che si chiama Nikishino in cui ormai non c’è più niente, ma lui e la sua famiglia vivono in una piccola stanza che ha ancora il tetto, perché per quel breve periodo in cui si sono dovuti allontanare, Oleg è morto di paura, e la sua mamma anche. Qui per lui persino le rovine sono riconoscibili, e mettono un po’ di sicurezza, la bici è rimasta intatta e Oleg può girare con gli amichetti rimasti per le strade semideserte, terra di nessuno. Dice che quando le maestre urlavano in classe lui e i loro compagni bisbigliavano: quanto vorrei che venisse giù, questa maledetta scuola. Ora non si sognerebbe più di dirla, una cosa del genere, ma sa anche che non vuole più lasciare la sua casa, pure se è a pezzi e chissà quando sarà di nuovo abitabile. Meglio qui che in qualsiasi altra parte del mondo. C’è infine Chuol, che vive in una palude assieme alla nonna e ad altre 80 mila persone: ha nove anni, scappa dal Sudan del sud, la nazione più nuova che c’è, il suo villaggio è stato razziato, suo papà è stato bruciato vivo, sua mamma stava scappando con lui ma si sono persi e non si sono più ritrovati (ora la nonna è partita per andarla a cercare). Chuol ha imparato a non avere paura dei coccodrilli, a trovare lavoretti attorno all’acquitrino, dice che se riesce a guadagnare qualcosa potrà studiare, vuole diventare un medico o forse lavorare all’Onu, la sua mamma gli diceva sempre che le agenzie umanitarie sono il posto migliore in cui si può aiutare gli altri.
    Ci sono, in giro per il mondo, trenta milioni di bambini così, che scappano ma sognano, che come Anna, la protagonista dell’ultimo, bellissimo romanzo di Niccolò Ammaniti, imparano a non sospirare troppo, a guardare lontano dalla cima di un albero per vedere casa, a insegnare ai fratellini a leggere, a non disperarsi finché una manina stringe la tua. Bambini fortissimi, che infilano una maglietta enorme ma sorridono lo stesso, perché non starà benissimo addosso, ma c’è su Bambi, un sopravvissuto come loro.

     

    P.s. Il mio dirimpettaio oggi non c’è perché è appena nata sua figlia Iulia. Questa storia di bambini forti è anche per lei.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi