Scalia è il giudice americano più detestato. La rassegnazione di chi accetta di non rincorrere l'amore

Paola Peduzzi

    Antonin Scalia è il giudice più detestato della Corte Suprema americana. Nemmeno John Roberts può tanto, un po’ perché è lì da molto meno tempo, un po’ perché ancora sta trafficando sulla sua “legacy”. I repubblicani sono inviperiti con lui, certo, il giudice conservatore, nominato da George W. Bush in mezzo a mille polemiche, è diventato, da quello scranno così prestigioso che è il più alto della Corte, il difensore in chief dell’Obamacare, cioè della legge che manda i repubblicani su tutte le furie. Ma quanto fa arrabbiare Scalia, nessuno.

     

    Nominato da Ronald Reagan nel 1986, Scalia è un “originalista”, difende l’interpretazione rigida della Carta costituzionale, è da trent’anni l’anima dell’ala conservatrice della Corte, e quando si trova in minoranza spesso è l’autore delle “dissent opinion”, con una creatività linguistica ormai leggendaria: sulla rete si trovano glossari che spiegano le sue espressioni più famose. Durante gli “oral argument”, la parte divertente – per noi spettatori, s’intende – del lavoro della Corte, quella in cui si ascoltano le varie parti in causa e i giudici fanno le domande, Scalia si trasforma in uno showman. E’ il più attivo, pone molte più domande degli altri, fa precipitare questioni di alta giurisprudenza nel quotidiano, imponendo all’attenzione di tutti non cavilli giuridici ma fatti facilmente comprensibili. Quando si sono discusse la prima volta l’Obamacare e la copertura sanitaria universale quanto obbligatoria, Scalia introdusse il famoso quesito sui broccoli: lo stato può obbligarti a comprare i broccoli? Da quel momento lui e i broccoli sono diventati le star del dibattito giuridico sulla legge obamiana. Dicono che Scalia entra negli “oral argument” come un cavaliere medievale pronto alla battaglia, rifiuta l’espressione enigmatica che caratterizza molti suoi colleghi, non si distrae, non lascia correre: insiste e combatte, consapevole di tanto disamore, facendosi odiare da tutti, compresi i suoi colleghi giudici supremi – che sulla sentenza sul matrimonio gay vengono trattati come degli stupidotti, che sputano “aforismi mistici” degni dei Baci Perugina. Ma se nessuno ti ama non hai obblighi, non hai responsabilità, non devi dare solidarietà, è l’esatto opposto di quel che fa, per dire, un’istituzione come l’Unione europea, sempre a caccia di consensi, sempre desiderosa di avere conferme sull’amore altrui da doversi poi lanciare in imprese impossibili, come quella sui migranti – dobbiamo essere solidali ma responsabili, che chissà poi cosa vorrà dire, se non che chi ha i migranti se li tiene, e tanti auguri – o come quella ancora più tormentata che riguarda e riguarderà la Grecia. Scalia non ha bisogno di essere amato, forse per estrema arroganza e presunzione, forse perché ha capito che, con certe idee, l’amore te lo puoi pure scordare.

     

    Così le sue opinioni dissenzienti sono diventate lo strumento della sua vendetta, del suo poter dire: voi non mi amerete, il mondo starà andando in una direzione che io non comprendo e che non mi comprende, ma quanto siete banali, santo cielo, quanto siete contraddittori. L’ultima lettera di vendetta sull’Obamacare è l’espressione massima di questo discontento (e segna una frattura che molti considerano insanabile con il “compagno” Roberts, con il quale Scalia ha condiviso sessioni meravigliose). Possiamo ormai rinominare l’Obamacare come “Scotuscare”, ha scritto Scalia (Scotus è l’acronimo per indicare la Corte suprema), molte delle questioni stabilite non sono soltanto sbagliate, ma anche confuse, e per sempre “la giurisprudenza onesta” ne pagherà le conseguenze. Che è come dire va bene, mi avete lasciato solo, ma non pensate che poi quella vita piena di convenevoli amorosi sarà felice, perché, si sa, la ricerca dell’amore rende gli uomini – le corti, le istituzioni, i presidenti – più fragili. Certo, per lui è facile: ha una carica a vita, può non preoccuparsi del consenso, o di quella cosa chiamata democrazia, per cui se tu non mi rappresenti io non ti voto. Ma per vestirsi da cavaliere e trattare anche i tuoi colleghi più autorevoli come ingenuotti immersi nel politically correct, mentre là fuori tutto il mondo si colora d’arcobaleno, bisogna essere coraggiosi, e rassegnati a non essere mai più amati.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi