Un banchetto sacro per la Triade del Campidoglio, i Ludi Magni per inverare il salutare trionfo di Virtus

Alessandro Giuli

    Oggi è grande festa a Roma. Festa dedicata alla così detta Triade Capitolina: Giove Ottimo Massimo, la sua consorte Giunone Regina e la virginale sapiente Minerva. A tali divinità, in antico, nell’Urbe veniva consacrato un banchetto, epulum, la cui organizzazione era assegnata a un apposito collegio sacerdotale: gli Epulones, un consesso di certo minore rispetto ai patrizi Pontifices e Augures o ai Viri incaricati d’interpretare i Libri Sibillini; ma non per questo trascurabile. Va da sé che nel banchetto sacro bisogna individuare qualcosa di assai diverso dalla crapula dei moderni, o dai bagordi profani e asiatizzanti che pure invasero Roma nell’età della decadenza. Qui mi limito a ricordare come il prisco romano, e con lui i Patres italici, non furono mai soliti pasteggiare sdraiati in triclinii alla maniera dei Greci o degli Etruschi grecizzanti: il vizio sopraggiunse tardi, insieme con aristocrazie decadute, esotiche ed errabonde. Il vir ricalcava sin nella postura, ieratica e rasserenata, l’immagine del proprio nume assiso in trono, specchio vivente dell’uomo transumanato, cioè saldo nell’ancoraggio alle sue origini celesti. Non mi permetto di addentrarmi nel mistero del nutrimento divino, si chiami questo ambrosia, soma, haoma; e si muti questo in icòre (il sangue degli dèi) o altra sostanza immateriale. Mi limiterò a suggerire che per offrire un epulum, per allestire il desco dei numi capitolini, è necessario essere un veicolo di nutrimento spirituale, farsi tramite d’una corrente ascensionale di consapevolezza che è già presente in natura, ma nel sacerdos romano trova una sua centralità e compiutezza, quasi una corona radiante.

     

    Giacché la festa della Triade cade nel mezzo dei Ludi Magni, non guasta aggiungere qualcosa intorno ai giochi nel mondo romano. Ma prima leggiamo un passo di Georges Dumézil (La religione romana arcaica): “Il magistrato apriva il corteo, seguìto da giovani a piedi e a cavallo; venivano poi i cocchieri e i lottatori che avrebbero gareggiato; infine su un carro speciale, chiamato tensa e condotto da un puer patrimus, gli dèi e, separate dagli dèi se intendiamo correttamente dei testi oscuri, le loro exuuiae, cioè i loro singoli attributi. […] I giochi propriamente detti si componevano di gare di quadrigae (non di bigae, come negli arcaici Ecurria), di desultores che saltavano da un cavallo all’altro, di lottatori, di pugili; i gladiatori, di origine etrusca, […] non furono mai introdotti nei grandi giochi pubblici. […] I Ludi Magni furono fin dalle origini ciò che continuarono a essere sempre: la più grande festa in onore di Giove O. M.”. Il gioco, per i nostri Padri, era qualcosa di ludicamente serio o severamente ludico: sempre sacro. Basti pensare all’atmosfera gioiosamente marziale che sprigionava dalla danza dei giovani sacerdoti di Marte, i Salii, il cui etimo viene dal verbo salio, is, saltum, ire, da cui anche il verbo italiano salire. Nel latino salto, as, avi, atum, are è contenuto il significato di danzare, ballare. Saltare risulta, quindi, essere un intensivo di salire come anche il salto che implica uno slanciarsi in alto e l’esultare. Dunque un tripudiare: tripudium, parola composta da tri (tre) e dalla radice pud/pad/ped che indicano l’andare, da cui pes, pedis (piede, passo; ma anche, piede misura di lunghezza e piede metrico, la trama del verso). Nella loro danza agreste e guerriera, i Salii percuotono per tre volte la terra col piede. Il loro tripudio non è dissimile al significato racchiuso nella parola ludus, appunto, giacché ci viene insegnato che “loegdus o lugdus hanno la loro radice in loeg/leg/lug con il senso implicito del saltellare, del saltare e quindi anche quello più intenso ed estensivo dell esultare, del tripudiare: ludere”.

     

    Vincolati con magnificenza dal re etrusco Tarquinio Prisco al culto capitolino di Giove Ottimo Massimo, i Ludi Magni derivano in realtà dai più antichi, romulei Ludi Romani in Circo Massimo nel corso dei quai avvenne il celebre “ratto delle sabine”. I giochi istituiti da Romolo, sul finire di agosto, erano detti Consualia, dal “dio indigete Conso, antichissima divinità latino-italica, protettore e conservatore della sementa, consiva”. In effetti, teste Valerio Massimo, il nome di Conso è riconducibile alla radice kòis, da cui konìstra (palestra, in greco) e konìen (correre). Non stupisce perciò che tal nume fosse titolare anche di gare ginniche e corse di cavalli. Ma a che pro? Non certo per un intrattenimento profano, come dicevamo sopra. Tutt’altro: basti rammentare come la forma ellittica del Circo Massimo evocasse lo Zodiaco, con tanto di obelischi a simbolizzare il Sole nei due fuochi annuali. Nell’agone – agone?, hoc age! dicevano i pontefici negli Agonalia di gennaio, sacri a Giano, di cui Conso (Consivius, Consuvius o Consevius) funge anche come designatio – e nella pratica di destrezza equestre dobbiamo quindi vedere una serie di atti rituali che per legge di analogia accompagna, attualizza, invera e conferma l’armonia del cosmo. Un gioco cosmico, insomma, finalizzato a perpetuare la pax deorum e paragonabile (ma non sovrapponibile per intero) a quello di cui scrive Platone nelle sue Leggi: “Bisogna passare la vita giocando giochi come i sacrifici, i canti e le danze, che ci permetteranno di ottenere il favore degli dèi, respingere i nostri nemici e vincere in battaglia”. Il Dumézil aggiunge: “Gli stessi romani vi riconobbero delle analogie con il trionfo, spiegate forse dalla comune origine, e attribuirono al sacerdote che guidava i giochi la veste del trionfatore”. E questa opportuna notazione ci consente di affermare che a trionfare nei ludi Romani Magni era la Salus, Virtus una di tutti i Quiriti, nella pace festiva di luminosi giorni.