Nel giorno di Giove Statore è bene richiamare in sé la Fortuna Manens, dea che giova agli uomini coerenti

Alessandro Giuli

    Ieri ricorreva la celebrazione del culto di Iuppiter Stator in Palatio: Giove Statore sull’altura delle origini, il Palatino. Secondo le fonti letterarie fu il re Romolo a volere un sacello dedicato al primo degli dèi lungo la Sacra Via, all’altezza della Porta Mugonia (l’archeologia, dopo varie e nebbiose ipotesi, avrebbe trovato conferme materiali), per adempiere al voto da lui fatto durante il culmine della battaglia contro i Sabini originata dal rapimento delle loro vergini: i militi romani si trovarono accerchiati e respinti dal nemico, costretti a indietreggiare verso la rupe capitolina, prossimi insomma alla rotta; a quel punto il figlio di Marte invocò (in sé stesso) ed evocò (nel mondo manifesto) il Pater Stator, la celeste forza numinosa che induce il Vir a debellare ogni timore e consistere nella propria Virtus, immobile come una quercia (ilex), risoluto in una volontà levigata come selce (silex), pronto a rilucere di forza come la scintilla fulgurale che nella selce è contenuta. Iuppiter Stator acconsentì al voto, i romani capovolsero le sorti dello scontro, i Sabini furono sconfitti e allontanati. In età augustea, il Vate Virgilio avrebbe poi enucleato nella sua Eneide un precedente archetipico delle gesta romulee appena citate. Nel XII libro, il canto conclusivo, allorché i soldati del rosseggiante nemico Turno (i Rutuli) sembrano in grado di soverchiare gli Eneidi, il figlio di Venere raduna le proprie schiere su un’altura e rivendica il patto con il sovrano degli dèi: Iuppiter hac stat, Giove sta qui, è con noi. E qui sta la riscossa dei futuri quiriti, la gens togata romana. L’immagine è potente, chiara, trionfale perfino. Ma appunto per questo non va dissipata circoscrivendola a un bellicismo esteriore, pena il rischio d’incorrere nell’equivoco, nella superficialità o nel trombonismo dei soldatini di cartone: tanto estroflessi nella loro vanità pettoruta quanto deboli al primo urto in cui sia chiamata in causa la qualità interiore. Seguiamo invece la via più ardua suggerita dalla lingua degli avi: la forma verbale latina stà-re è voce che proviene dalla radice sthà- per cui lo stare in piedi è conseguenza, se non pure metafora, dell’esser fermo, del dimorare in sé stessi, vigili, saldi, integri in una condizione raggiunta di là dal moto, dal divenire fenomenico in cui giace dormiente la natura inferiore dell’uomo comune. E’ un risveglio! Il ridestarsi dell’avo primigenio che risponde alla chiamata del suo degno sangue, quando il Vir raduna le proprie schiere interiori, le trae verso l’alto e si fa immagine di Coerenza e Armonia. Così è tramandato:
    Coerenza è coesione, unione. Un discorso coeso è appunto coerente, cioè non presenta contraddizioni. Coerenza è quindi anche organicità. Il vocabolario spiega la organicità come connessione funzionale delle varie parti di un tutto. L’organico è infatti ciò che è formato da più elementi o parti, coordinate tutte a uno stesso fine. Un tutto armonico, dunque. Armonia, a sua volta, evoca equilibrio, proporzione, simmetria, accordo, quindi ecco la cohaerentia, che deriva dal verbo latino cohaereo il cui participio passato è cohaesum, ciò che è unito e giocoforza sussiste in sé, perché ha reale fondamento. Ne deriva che l’incoerente è il disomogeneo, il frammentario, il disorganico, mancante quindi di quel caposaldo e altresì di continuità, che sono proprio i presupposti della cohaerentia, nel qui e ora. L’uomo quindi non può difettare di tale requisito che in lui assume il carattere di una virtù imprescindibile. L’uomo incoerente infatti presenta i vizi della discontinuità, della incongruenza, manifestando la disorganicità e la disarmonia. In sintesi, dissociazione.

     

    Donde la fuga nella contraddizione, l’avvicinarsi della rotta interiore nell’uomo che si affida non più alle sue divine risorse ma al capriccio della fortuna, quella Fors Fortuna di provenienza lidio-etrusca, dubia dea, cioè dea della incertezza, la cui natura plebea viene celebrata al solstizio d’estate (plebis colit hanc, dice Ovidio) da coloro che non coltivano sé stessi, che conducono quindi una vita asservita alla inerte grossolanità, che trascorrono la loro esistenza in una torpente indifferenza. A questo ente “pseudo-divino”, che evoca piuttosto la corporeità letargica del tipo orientale, si affidarono in età antica i Prenestini asiatizzati per combattere Roma nel luogo (l’Allia) in cui, secoli prima, i barbari di Brenno avevano infranto l’argine delle legioni. Ma i presuntuosi, fatalisti Prenestini vennero annientati: non avevano compreso che fortuna è questo per il Romano, il saper provvedere, il saper far fronte a qualunque minaccia lungo il corso della vita. Fortuna è costruire dentro di sé una Virtù, che è potenza e forza, in grado di far fronte al pericolo di un danno incombente o futuro, a quella che gli uomini definiscono la malasorte. Una volta affermata in sé questa potenza, che è soprattutto perfezionamento e realizzazione di sé, allora soltanto potrà invocare una divina Fortuna: la divina FORTUNA MANENS o Fortuna Perpetua, la Fortuna che resta ferma, persevera, che accompagna sempre e che nel Huiusce diei, nel presente, nel qui e ora, l’Uomo edifica dentro di sé e di cui lui, il Romano, sa armare sapientemente la sua gente fino a estenderla all’intero popolo dell’Urbe, Fortuna Publica Populi Romani.

     

    Ma come affermare in sé tale potenza? Risalendo alle origini! Propiziando il ritorno dell’uomo alla suprema virtù della coerenza, al severo esercizio, davvero salutare, della DISCIPLINA. Disciplina come costume come arte come scienza come scuola. Disciplina da attuare soprattutto in sé stessi e per sé stessi. Disciplina quindi come governo di sé. I romani vi si assoggettano, è il loro esercizio quotidiano, di ogni ora, di ogni istante. Presenza continua a sé stessi e ai doveri verso la Famiglia, le Genti, la Religio, la Patria. Mai il romano trascura sé stesso; tale continuità rinvigorisce la sua coerenza. Questa organicità, minutamente controllata, esalta nell’uomo quella unitarietà che conduce alla suprema armonia divina; ne godono la Natura, l’Urbe e il Cosmo intero.
    DISCIPLINA COERENZA ARMONIA
    Immenso eroico respiro che richiede la presenza, nel seno della vivente Natura, degli Dei aviti e, eretto di fronte a essi, dell’Uomo Vir.