Con il Sole fra i Dioscuri, il dio Vediove si svela (in parte) attraverso le stagioni dell'uomo

Alessandro Giuli

    Sabato scorso, con il Sole entrante nel segno dei Dioscuri (Castores), ricorrevano gli Agonalia, feste principiali e dunque consacrate a Giano – in principio era l’azione! – che il calendario dei Patres fissava quattro volte nel corso dell’anno solare: 9 gennaio, 17 marzo, 21 maggio, 11 dicembre. In almeno due di queste occasioni, protagonista del rito è il Rex sacrorum, figura della sovranità sacerdotale sopravvissuta all’età regia – memento: chiunque dica: “Io sono il re”, non è affatto un vero re. Il Rex immolava l’agonia al nume bifronte: un capro nero a gennaio, ovvero l’annus vetus che rientra nell’immanifesto; e a maggio un ariete, virile forza solare che s’avvia verso il proprio culmine nel solstizio di giugno.

     

    Ma il 21 maggio è anche un giorno sacro a Vediove e ai riti di passaggio tutelati da questo misterioso nume dal quale discende la gente Giulia. Gli autori antichi lo dicono Piccolo Giove – Ve(d)Iovis – e gli attribuiscono qualità apollinee salvifiche o punitive, a seconda delle circostanze, simboleggiate dalle frecce. I suoi templi più noti sono collocati sul Campidoglio – nell’Asylum, lì dove avveniva la transizione dalla sfera della selvaticità a quella civica – e sull’Isola Tiberina, non lontano da Fauno. Gli autori moderni collegano Vediove con il Vulcano albano e con Ascanio/Iulo, figlio di Enea e capostipite dei Giulii di Alba Longa e di Bovillae, i quali al nume gentilizio dedicarono un altare con l’iscrizione “Vediovei Patrei / Genteiles Iuliei / aara leege Albana dicata”. Durante il principato, Cesare Augusto avrebbe interamente solarizzato il dio di famiglia nelle fattezze di Apollo, in modo da estendere all’Urbe intera la sua benefica protezione. Come se Vediovis fosse un Sole aurorale che libera la potenza accrescitiva – dalla radice aug= accresco – dalla notte dell’indistinto e accompagna il puer all’età della giovinezza compiuta, risplendente di luce febea. Ma chi è questo puer? I Maggiori lo definiscono Puer ingenuus, Puer che nasce da padre libero, attento al culto familiare e al culto degli Dei Patri è appunto ingenuus e tale ingenuitas legata al culto del Genio familiare e attraverso di esso al Genio Patrio non deve essere turbata. Giovenale ammonisce: “Maxima debetur puero reverentia”. Scongiura i genitori di allontanare, per amore del figlio, dall’ambiente domestico tutto ciò che può macchiare le orecchie e gli occhi del fanciullo. Ammonisce i padri scostumati a non azzardarsi a macchiare l’innocenza immatura dei suoi anni. Il Puer è dunque un germoglio, un virgulto che deve essere curato e protetto così come Amaltea (la fulva capra nutrice di Giove fanciullo) nutriva il principio divino e lo proteggeva dalla voracità del tempo. Ma la capra è anche l’animale natura che strappa i giovani virgulti e li assoggetta al rumare del tempo. Ecco perché bisogna che il fanciullo esca indenne dal grembo. Accanto a lui, sopra di lui o, meglio, dentro di lui, è il senex: non già il vecchio per legge temporale ma il Senex ingenuus che possiede in sé l’ingenuitas, il Fanciullino. E il più vecchio di tutti è l’Antico, Quello di sempre (sen-ex, sem-per), l’Eterno.

     

    Il Puer deve affrontare le dure prove dell’esistenza. Vuole lanciarsi, produrre, gettare, generare, andare oltre sé stesso. Il canto dei capri – ritmi vitali, di morte e rinascita, ritmi di espansione e contrazione, di ascesa e declino, diastole e sistole; magnificazione dell’armonia cosmica! – lo stordisce; è animoso, scontroso, testardo. Lo avvolge e coinvolge la spontanea perpetua energia della natura che sparge e libera forze vitali. E’ una discesa agli inferi, la sua. La natura, materna, assorbente e fascinosa lo cattura; indipendente, selvatica la capra gli fa da guida. Questa discesa agl’inferi è una necessità per raggiungere la virilità. Il mondo terrestre, con la sua natura selvaggia, soggetta al mutamento è tuttavia la realtà infera, benigna e maligna, ombra che gli sta di fronte, ma della quale anch’egli partecipa per umano destino. In questa realtà, concreta, egli deve vivere e creare sé stesso, forgiarsi come uomo, Vir. Questa discesa agl’inferi gli occorre per stabilire la sua giusta relazione fra cielo e terra, fra libertà e necessità. Quel germoglio, che è dentro di lui, chiede di venire in essere, nell’essere che gli è proprio. Non può sopravvivere nella mera naturalità; rischierebbe di perdersi nell’illusione fomentata dal canto dei capri. S’inabisserebbe nella fatalità. Deve impugnare le frecce e trafiggere le chimere. Deve sacrificare la capra e della sua pelle farsene una stola da fermare sull’omero sinistro a ornamento della sua nudità; nudità finalmente riscoperta, delineata nella realtà delle sue forme, ricomposta nella sua originaria unità e che risponde al comando del Padre interiore. Deve riemergere dagl’inferi! Il pilum è ora la sua arma, l’arma da getto che penetra, che tragetta e che richiama il glande, la parte terminale dell’organo erettile maschile: raffigurazione simbolica della virilità, la condizione assiale costituita dalla colonna vertebrale che deve però essere conquistata e consolidata dall’uomo sul piano spirituale. Ora, liberato dalle passioni, dall’oscuro, gli son chiari gli orizzonti, i profili dei monti, il corso dei fiumi, le immagini tutte della natura reale; svanita è la fantasmagorica, illusoria, irreale trama. Ora gli son chiari i suoi gesti, le sue azioni; potrà svolgere opera di giustizia, in pace e in guerra; luminosa la via, la sua meta. Ora potrà trasferire dal Puer, incorrotto e integro, il fanciullino al Senex, al più Vecchio di tutti, a Quel di sempre, all’Eterno.

     

    I Maggiori ne concludono che tale è Vediovis, quel dio che, indosso sulla sua nudità la stola di pelle di capra, disvela ciò che s’incela alla ragione pur essendo realtà concreta aperta all’azione e all’aspirazione dell’uomo nelle stagioni della sua vita, dall’infanzia alla vecchiezza. La svela con un semplice gesto, scagliando il pilum…

     

    Ecco allora che la capra sacrificata humano ritu a Vediove è il sacrificio dell’humus, umida natura inferiore, dunque infera, da esperire e purificare nella dimensione in cui il Puer si fa Vir: rito di passaggio (il getto del pilum) dal vello protettivo ctonio alla nudità compiuta, fino alla conoscenza del reale nell’intelletto superiore, il Nous paterno chiaro-veggente che punta al centro come una saetta apollinea.