Tra il Natale di Roma e le feste di Flora, in compagnia di un'Ode carducciana e della dea Virtus

Alessandro Giuli

    Il Natale dell’Urbe è trascorso, ci incamminiamo con il Sole sul viso verso le feste di Flora, dea tutelare delle linfe romane la cui rosa dai cinque petali non può sfiorire. E’ colei che fa ardere l’Amor eterno, rigenerando perennemente la Vis dei Quiriti (soltanto in età tardo antica, quando la decadenza dei mores eccitò le lascivie del sostrato pre ario, il malanimo degli atei poté accusare le feste Floralia di turpitudine, calcando la sinistra mano sulla licenziosità con cui le plebi evocavano la forza di attrazione universale di cui è sostanziata la dea). Sulla strada per Flora ci accompagna Giosuè Carducci, bella figura di patriota che negli anni ha dovuto subire l’onta della smemoratezza e qualche vile schizzo di fango contrabbandato per critica letteraria. Ma che importa? Ecco la sua mirabile Ode intitolata “Nell’annuale della Fondazione di Roma” (1887):

     

    Te redimito di fior purpurei
    april te vide su ’l colle emergere
    da ’l solco di Romolo torva
    riguardante su i selvaggi piani:
    te dopo tanta forza di secoli
    aprile irraggia, sublime, massima,
    e il sole e l’Italia saluta
    te, Flora di nostra gente, o Roma.
    Se al Campidoglio non più la vergine
    tacita sale dietro il pontefice
    né più per Via Sacra il trionfo
    piega i quattro candidi cavalli,
    questa del Fòro tua solitudine
    ogni rumore vince, ogni gloria;
    e tutto che al mondo è civile,
    grande, augusto, egli è romano ancora.
    Salve, dea Roma! Chi disconósceti
    cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
    e a lui nel reo cuore germoglia
    torpida la selva di barbarie.
    Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
    del Fòro, io seguo con dolci lacrime
    e adoro i tuoi sparsi vestigi,
    patria, diva, santa genitrice.
    Son cittadino per te d’Italia,
    per te poeta, madre de i popoli,
    che desti il tuo spirito al mondo,
    che Italia improntasti di tua gloria.
    Ecco, a te questa, che tu di libere
    genti facesti nome uno, Italia,
    ritorna, e s’abbraccia al tuo petto,
    affisa ne’ tuoi d’aquila occhi.
    E tu dal colle fatal pe ’l tacito
    Fòro le braccia porgi marmoree,
    a la figlia liberatrice
    additando le colonne e gli archi:
    gli archi che nuovi trionfi aspettano
    non più di regi, non più di cesari,
    e non di catene attorcenti
    braccia umane su gli eburnei carri;
    ma il tuo trionfo, popol d’Italia,
    su l’età nera, su l’età barbara,
    su i mostri onde tu con serena
    giustizia farai franche le genti.
    O Italia, o Roma! Quel giorno, placido
    tornerà il cielo su ’l Fòro, e cantici
    di gloria, di gloria, di gloria
    correran per l’infinito azzurro

     

    Chi disconosce la Dea Roma, “Flora di nostra gente” – dice Carducci – “cerchiato ha il senno di fredda tenebra”. Ma quanti, oggi, possono rivendicare il calmo possesso della romanità? Ovvero del ri-cordo di sé, che è accordo interiore con il Genio – sive mas, sive foemina – che sovrintende alla vicenda storica di Roma Aeterna? Pochi, direi, a giudicare dalle condizioni immiserite in cui giace la Capitale. La domanda interpella anche coloro, uomini e donne, che con voci stentoree oggi si candidano a salire sul Campidoglio come sindaco, non certo con la serena gravitas del pontifex togato né con il casto passo della vergine tacita, la vestale custode della flamma comune… Altri uomini e altre donne, lontani dai miasmi del raccordo anulare, si occupano di perpetuare i sacra. Ma dentro quel che rimane delle antiche mura ci si accontenterebbe di scorgere rispetto, anzitutto per il proprio officium, che è il compito destinato a ciascuno secondo le sue possibilità; senza dimenticare che “per ogni romano-italiano il Mos Maiorum ha un valore assoluto, perciò esso lo vincola in maniera cogente, in quanto è la misura della condotta conforme al suo genio, quindi non può essere abbandonato senza che egli neghi se stesso o rinunci ad attuare il suo bene, annullando il senso della sua esistenza” (L. M. A. Viola in Saturnia Regna, 59, Victrix, Forlì). L’officium tradizionale, che i contemporanei hanno negletto al punto di declassare il termine latino a generico luogo di lavoro (?), deve essere risollevato al rango di dovere, affinché torni autentica la massima di Cecilio Stazio e si tenga lontano l’assurdo egualitarismo che tutto livella e sconsacra con la scusa di democratizzare e liberalizzare: homo hominis deus est, si suum officium sciat.

     

    Ma non si può chiedere troppo, e con troppa fretta, lo sappiamo. L’officium del politico, a Roma più che altrove, e senza scomodare oltremisura Cicerone che al tema dedicò uno dei suoi scritti più importanti, oggi potrebbe essere centrato su pochi e precisi princìpi etici, fra i quali il rispetto della parola data, la lealtà alle istituzioni, l’impermeabilità alla corruzione o anche alla sola convenienza personale.

     

    Tenendo però presente che ethos è parola antichissima, non ha nulla a che vedere con il moralismo corrente: è fondata su una radice indoeuropea che riconduce al concetto di stare, significa “il sé posto” in profondità, e cioè non l’indole spontanea – quello che i contemporanei chiamano con leggerezza “carattere” – ma il nucleo essenziale di una natura coltivata e rigenerata attraverso la disciplina. Questo, almeno, sia l’obiettivo quando non già il punto di partenza. Se, come disse il nobile Eraclito, ethos è all’uomo daimon, Virtus sia a Roma genio di luce e corona floreale di Concordia.